Guido Carpi
danovismo all'italiana. Gli intellettuali del dopoguerra e l'"ingegneria delle anime".
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La cultura contemporanea ha sottoposto pochi nomi a una damnatio memoriae totalizzante quanto quella riservata ad Andrej Aleksandrovič danov (1896-1948) e alla politica culturale a lui legata. Difficile trovare una ricostruzione della vita culturale dell'immediato Dopoguerra - soprattutto fra quelle licenziate da critici e studiosi di sinistra - dove non ci si senta in dovere di stigmatizzare il fenomeno: "debolezza morale"[1], miscuglio di "chiusura provinciale", opportunismo e rigidità settaria[2], "grosso iceberg al centro della politica culturale comunista"[3] , "vero e totale servaggio"[4], "simbiosi di una stupefacente disinvoltura sul piano teorico e scientifico con un chiuso spirito burocratico sul piano ideologico e culturale"[5]. "Stupefacente", appunto: come potè un simile monstrum culturale tralignare dal chiuso recinto sovietico - dove si suppone che esercitasse la sua egemonia grazie al deterrente del braccio secolare - e irrompere nel panorama intellettuale italiano, sconvolgendone gli apparentemente consolidati equilibri nell'arco del biennio 1948-1949 per poi rifluire in una sorta di lunga convalescenza collettiva?
Mentre in Francia il nome di danov era ben noto fin dagli anni Trenta, non stupirà che di tali fenomeni non si avesse alcun sentore in un'Italia appena uscita dal ventennio fascista. Quasi tutti i giovani intellettuali che si avvicinano al Pci nell'ultima fase della guerra o immediatamente dopo di essa hanno alle spalle una formazione culturale influenzata dall'idealismo crociano e vantano una militanza in gruppi o riviste legate al cosiddetto "fascismo di sinistra"[6]. La loro adesione al comunismo ha, almeno all'inizio, un carattere genericamente etico, estraneo alle sottigliezze dottrinali: "Il Partito ti rimprovererà di aver commesso un errore affidandoti al tuo cuore"; - cosi Vasco Pratolini a Corrado/Maciste, eroe comunista delle Cronache di poveri amanti e superuomo dannunziano in side-car, - "ma se non ti fidassi mai del tuo cuore non saresti nel Partito. Hai forse mai letto una riga di quel volume intitolato Il Capitale, che fa sonno solo a guardarlo?"[7]
L'esperienza della guerra e della Resistenza, spesso vissuta in prima persona, impone agli intellettuali un radicale ripensamento del proprio ruolo: "non hai idea quanto la guerra e la mezza-rivoluzione hanno resa canora e faconda la gente. Tutti scrivono versi e memorie, prose e pamphlets, discorsi e analisi e confessioni". - Cosi, sul filo dell'ironia, nota un intellettuale che pure viveva con particolare drammaticità l'esigenza di auto-rinnovamento. - "Una delle caratteristiche di questi anni è l'arte applicata - tutti vogliono dimostrare, testimoniare qualcosa"[8]. È sempre Pavese a chiarire, in un intervento inedito dell'aprile 1946, come tale ansia di palingenesi, pur muovendo da una generica crisi nella percezione del proprio ruolo sociale, spingesse gli intellettuali in una direzione politica ben precisa: "Non si 'va verso il popolo'. Si è popolo. Anche l'intellettuale, anche il 'signore', che soffrono e vivono l'elementare travaglio del trapasso da una civiltà di impedimento e di spreco a quella organizzata nella libertà e dalla tecnica, sono popolo e preparano un governo di popolo. Che quello che vuole è il comunismo"[9]. Adesione al comunismo, dunque, nei termini già enunciati dal Blok di Intelligencija i revoljucija[10], come tentativo da parte dell'intellettuale di superare il tradizionale isolamento, dissolversi nella "massa" del popolo e recuperare - se non un ruolo dirigente - almeno la capacità di interpretare e in parte indirizzare i mutamenti storici.
Nel clima del 1944-1947, la totale assenza di strutture politiche, sociali ed economiche consolidate è interpretata dagli intellettuali (anche da quelli non comunisti: si pensi alle riviste "La nuova Europa" di Luigi Salvatorelli e "Il ponte" di Piero Calamandrei) come necessità di "ricostruire, al di là delle specializzazioni, un'unità morale della persona umana"[11]: la diretta partiticità della letteratura è rifiutata in nome di un generico umanesimo, e il nodo problematico non è tanto lo sviluppo sociale in quanto tale, quanto l'individualità dell'intellettuale che deve ripensare il proprio ruolo in tale sviluppo[12].
Sul movimento letterario (assimilato poi al neorealismo cinematografico) che per la prima volta nella storia della cultura italiana si pone il problema di rappresentare le masse popolari come elemento attivo del progresso storico, pesano limiti imposti dalla generale arretratezza della società italiana e dalla tradizionale autoreferenzialità degli intellettuali. Non a caso, nei romanzi più rappresentativi del periodo il 'popolo' oggetto di raffigurazione non è il proletariato di fabbrica, ma un amalgama precapitalista di piccola borghesia, artigianato e sottoproletariato urbano. Allo stesso modo, gli ideali "comunisti" attribuiti agli eroi popolani positivi sono descritti nei termini di un ideale arcaizzante, un solidarismo dai tratti evangelici, "elegiaca nostalgia di anime semplici non ancora toccate dalla civiltà capitalistica"[13]: esempi particolarmente probanti ne sono il chitarrista Pablo de Il compagno di Pavese, il pidocchioso stagnino Giacinto de Il sentiero dei nidi di ragno[14], il già citato fabbro Maciste, modellato certo non su Pavel Korčagin ma - esplicitamente - sul marinaio di Kronstadt che "credeva, figurati! Che Marx fosse uno dei dodici apostoli!"[15]. Date le premesse, non stupisce che tale massa primitiva e irruenta sia sovente organizzata e diretta da una figura carismatica di intellettuale con cui palesemente si identifica l'autore: si pensi al Gino Scarpa de Il compagno o al commissario Kim de Il sentiero. Romanzo, quest'ultimo, in cui Calvino si ispira dichiaratamente a L'armata a cavallo di I. Babel' e a La disfatta di A. Fadeev, ossia alle opere sulla guerra civile russa in cui più spazio trova il travaglio dell'intellettuale di fronte al primitivismo ferino dello scontro di classe: "La letteratura che ci interessava era quella che portava questo senso d'umanità ribollente di spietatezza e di natura"; - scrive Calvino nel 1964 in una famosa prefazione al romanzo, - "anche i russi della guerra civile (
) li sentivamo come nostri contemporanei". Seguono gli esempi citati[16]. Della perfetta triangolazione che si veniva in questo caso a creare fra Hemingway, Babel' e Fadeev non tardò del resto a dar malevolo conto Giancarlo Vigorelli, secondo cui i giovani adepti della "scuoletta" neorealista - con riferimento proprio a Calvino - si limitavano a confezionare "pseudocronistorie italiane metà scritte all'americana e metà alla sovietica"[17].
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Inizialmente, il Pci sembrava offrire una sponda ideale a tali tendenze. La politica culturale adottata al V congresso (dicembre 1945) è conforme alle linee strategiche generali del "partito nuovo" togliattiano: si cercano alleanze larghe per un'opera - si direbbe oggi - di Nation building e di rinnovamento culturale in senso non marxista, ma genericamente democratico-antifascista. Intellettuali sideralmente lontani dal milieu proletario quali Sibilla Aleramo e Bruno Barilli si sentono del tutto a loro agio sul palco di un congresso in cui più di un quarto dei delegati risultano appartenere al mondo della cultura. Poco dopo il congresso, il latinista Concetto Marchesi - peraltro ortodossissimo stalinista - denuncia il pericolo di fare "della corrente marxistica uno stagno per ranocchi", e motiva, con sorprendente ecumenismo culturale: "I marescialli dell'esercito sovietico, nei momenti di riposo loro concessi dalle tremende responsabilità di una guerra senza respiro, leggevano Pushkin e Tolstoj (
); auguriamoci che un giorno un nostro operaio meccanico o un tecnico o un fisico possa avere tra le mani, nel testo originale o tradotto, quel decrepito poema di Lucrezio cui la Russia sovietica, unica fra le nazioni del mondo, si accinge a celebrare il bimillenario"[18]. La stessa definizione di marxismo come "storicismo integrale" offerta di li a poco dallo storico della letteratura Natalino Sapegno sull'organo culturale del partito elimina ogni asperità materialistico-dialettica e pare fatta per ridurre al minimo gli attriti con lo storicismo idealistico di Benedetto Croce, predominante nella cultura nazionale[19].
È il periodo del governo di unità nazionale e della battaglia per la costituzione repubblicana, e il Pci promuove un'alleanza strategica fra medio-piccola borghesia e lavoratori salariati che prevede in prospettiva - soprattutto nell'ottica di dirigenti comunisti come Giorgio Amendola e Giuseppe Di Vittorio - la fusione di tutti i movimenti politici progressisti in un "partito del lavoro"[20] e ha come risvolto una cultura improntata a un generico storicismo democratico. La polemica intorno alla rivista di Vittorini "Il Politecnico" - accusata dalla stampa di partito di intellettualismo astratto e superficiale cosmopolitismo - rimane per ora un'eccezione.
Il punto di svolta si ha a metà del 1947: tramonta l'ipotesi di fusione col partito socialista e altre formazioni di sinistra, in maggio i comunisti vengono esclusi dal governo, mentre gli avvenimenti internazionali (rifiuto sovietico di aderire al piano Marshall, enunciazione della dottrina Truman detta del "contenimento", fondazione del Cominform, colpo di Stato a Praga) portano alla "delegittimazione della politica che aveva accompagnato la crescita delle basi di massa e dell'influenza dei partiti comunisti"[21]. La contraddizione, da una parte, fra il perdurante carattere di massa del partito e il suo recente ruolo nella fondazione del nuovo Stato e, dall'altra, l'improvviso isolamento, porta la giovane compagine politica ad accentuare gli elementi autoreferenziali e identitari: ai "compagni di strada" intellettuali si sarebbero chieste d'ora in avanti militanza e ortodossia a tutto tondo.
Ovviamente, si tratta di un processo graduale: se la riunione della segreteria del 14 agosto '47 - dedicata ai problemi della cultura - conserva ancora un atteggiamento aperto, conscio della necessità di evitare finalità meramente propagandistiche nel proprio rapporto con gli intellettuali, le posizioni espresse durante la riunione del 1 novembre - che già prelude al VI congresso - sono assai più chiuse, 'nazional-patriottiche' e stigmatizzano "la diffidenza degli intellettuali italiani verso la cultura del paese del socialismo"[22].
Non a caso, fra le due assise cade la riunione costitutiva del Cominform (Szlarska Poręba, Polonia, 22-28 settembre 1947), dove danov in persona stigmatizza l'eccessiva arrendevolezza del Pci: "Che cosa pensa di fare il partito?" - cosi il dirigente sovietico incalza Luigi Longo - "Passerà dalla difensiva all'offensiva? Ha il partito un piano d'offensiva? (
) O forse, col pretesto di evitare 'avventure', permetterete che il partito venga messo fuori legge? Fino a quando il partito ha intenzione di retrocedere? Tutte queste questioni non possono non inquietare la classe operaia di tutto il mondo"[23]. Tali critiche vengono ribadite da danov il giorno successivo nel noto rapporto Sulla situazione internazionale, che definisce con la massima chiarezza il punto di vista di Mosca: "In Italia come in Francia i comunisti hanno sopravvalutato le forze della reazione, sono stati vittima dell'intimidazione e del ricatto imperialista, hanno sottovalutato le proprie forze, le forze della democrazia, la volontà delle masse popolari di difendere i diritti nazionali fondamentali e gli interessi del proprio paese"[24]. In un mondo ormai irrimediabilmente bipolare, l'indipendenza politico-economica e l'identità culturale dei Paesi occidentali non si può più riparare all'ombra di un generico ecumenismo democratico, ma cade interamente sulle spalle dei partiti comunisti nazionali: "Essi - si conclude il rapporto di danov - devono prendere nelle proprie mani la bandiera della difesa dell'indipendenza nazionale e della sovranità dei propri Paesi"[25].
Lo stesso danov non sembrava però farsi molte illusioni quando il 24 settembre rapportava a Stalin da Szlarska Poręba che dalla relazione di Longo "si è visto che il partito, pur contando 2.200.000 membri, grazie agli errori e all'insipienza dei suoi dirigenti non sa più che fare e attende lo sviluppo degli eventi"[26]. Nella stessa direzione andavano le indicazioni date dai massimi dirigenti sovietici a Pietro Secchia (il leader comunista italiano più fedele a Mosca), recatosi appositamente a Mosca in dicembre: se danov torna a chiedere un maggiore attivismo, Stalin si mostra consapevole che "oggi non è possibile" imprimere alla crisi italiana uno sbocco rivoluzionario[27]. In tempi di piano Marshall e di totale ostracismo governativo, sul piano della lotta politica e dell'iniziativa economica le prospettive di recupero da parte del Pci apparivano pressoché nulle, almeno fino alle previste elezioni d'aprile. Margini di manovra assai più ampi per rimediare "agli errori e all'insipienza" li offriva la politica culturale[28]. Urge la necessità di serrare i ranghi, di chiedere agli intellettuali un maggiore allineamento ideologico e un più diretto impegno militante. Né al partito difetta un dirigente dotato dei requisiti ideali per assolvere tale compito.
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A legare il proprio nome alla propaganda dello danovismo più conseguente è nel 1948-1950 Emilio Sereni: definito da alcuni "estroso, paradossale, napoletano, euforico, di natura vivace e geniale"[29], ricordato da altri come un "gesuita" contraddistinto da "raffinato cinismo"[30], Sereni è certamente una delle figure più poliedriche e complesse della cultura italiana novecentesca. Il futuro dirigente comunista nasce a Roma nel 1907 e si forma nell'ambiente - unico per spessore culturale e afflato cosmopolita - dell'intellettualità ebraica della capitale. Nel 1925 aderisce al sionismo di sinistra grazie ai contatti col gruppo di emigrati russo-ebrei raccolto attorno a Moises Beilinson e Xenia Pamphilova Silberberg, figlia del leader socialrivoluzionario Lev Silberberg, giustiziato dopo la rivoluzione del 1905[31]. Nel 1929 Sereni sposerà la figlia di Xenia Pamphilova, anche lei di nome Xenia e nipote nientemeno che di Boris Savinkov[32]. Dato il connubio fra sionismo e populismo russo che contraddistingue tale cerchia, non stupisce che Sereni si dedichi agli studi di agronomia in vista di una futura alyà (trasferimento) in Palestina, sull'esempio del fratello maggiore Enzo che vi risiede già dal 1926, ma l'interesse per l'esperimento di colonizzazione ebraica in Crimea condotto dal governo bolscevico in quegli anni finisce per orientare le sue simpatie in direzione marxista. Nonostante il fratello lo metta in guardia da "tutte le idealistiche simpatie per le varie inquisizioni"[33], nel settembre 1928 Sereni rinuncia all'alyà e si dedica alla lotta clandestina, per finire in carcere già nel 1931. Scontati cinque anni, durante i quali si diffonde fra i compagni il suo mito di "impeccabile macchina intellettuale"[34] dalla cultura e dalle capacità mnemoniche sconfinate, Sereni ripara in Francia, dove entra subito nel gruppo dirigente del partito.
In questi anni Sereni è tutt'altro che un custode dell'ortodossia: il 'moscovita' Giuseppe Berti, nel corso della sua famigerata 'ispezione' del 1937 a Parigi per conto del Komintern e del Nkvd, lo definisce "un intellettuale piccolo-borghese, con un fiuto politico estremamente debole (
). Ha un atteggiamento ironico verso l'autocritica, posizioni non giuste sull'Unione Sovietica"[35]. Né Berti né il suo temibile patron dell'Nkvd Meier Trilisser (Moskvin) mancano di tirare in ballo le posizioni politiche della suocera di Sereni, dal 1932 residente in Palestina, e, malgrado egli difendesse disperatamente sé e la moglie, è pur vero che le frequentazioni di area eterodossa non gli mancavano. Fra queste, il figlio di Savinkov, Lev, presso il cui appartamento parigino la coppia aveva addirittura soggiornato, e soprattutto Rafail Abramovič, membro del Bund russo e dirigente a Parigi dell'Internazionale socialista (IOS), il cui figlio Mark era da poco misteriosamente scomparso a Barcellona, forse per mano di agenti sovietici. Convocato a Mosca per lavorare nell'Internazionale della Gioventù Comunista, Sereni si fece latore di un messaggio di Abramovič, il che gli valse l'arresto e 35 giorni alla Lubjanka, da cui usci, pare, grazie all'interessamento di Stalin in persona[36].
Essendosela cavata tutto sommato a buon mercato, con una sospensione da tutte le cariche, Sereni torna a responsabilità politiche di rilievo nell'ottobre 1941, quando partecipa al comitato antifascista clandestino nel territorio di Vichy. è poi dirigente della guerra di liberazione: il manifesto dell'assunzione dei poteri da parte del Clnai dopo l'insurrezione partigiana nel nord reca la sua firma accanto a quella di Longo. Membro più giovane nell'assemblea costituente, ministro dei Lavori Pubblici nei governi di unità nazionale, responsabile del partito per i problemi del Mezzogiorno, autore di studi sul paesaggio agrario mediterraneo che coprono un arco di duemila anni[37], Emilio Sereni è nel 1948-1950 il principale teorico italiano dello danovismo integrale e regista del "richiamo all'ordine" degli intellettuali.
Raccolti nel volumetto Scienza marxismo cultura (1949) o pubblicati sulla stampa di partito, gli interventi di Sereni nel campo della politica culturale si fondano su una strategia esplicitamente rivendicata: identificare danov e Gramsci - dei cui Quaderni era proprio allora iniziata l'edizione - intorno a un minimo comune denominatore di temi continuamente ribaditi.
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) non si saprebbe intendere a fondo Gramsci senza Stalin e senza danov. Basti ricordare alcuni motivi sempre ricorrenti, sia pur sovente solo accennati, nell'opera di Gramsci: quello della cultura e della direzione culturale, intesa come lotta contro la spontaneità; quello pedagogico e morale della filosofia, intesa come intima coerenza fra teoria e pratica, come superamento dell'"uomo del Guicciardini"; quello del marxismo come filosofia di massa, come assoluta novità, come salto qualitativo nella storia del pensiero umano; quello, infine, del valore gnoseologico della costruzione socialista[38].
Sereni compie in modo assai versatile il tentativo di innestare lo danovismo nel contesto della tradizione italiana: Gramsci, ma anche Giordano Bruno, Tommaso Campanella e Francesco De Sanctis, da cui è mutuata la critica all'"uomo del Guicciardini", l'intellettuale italiano tradizionale, che elitarismo e mancanza di contatti con i movimenti popolari condannano all'astrattezza e allo sterile ripiegamento sul proprio "particulare"[39]. E nondimeno, appare chiaro come proprio il marxismo in versione danoviana sia il vero baricentro dell'intero discorso: da danov, Sereni mutua infatti la tensione totalizzante e le aspirazioni palingenetiche, giustificate da una concezione del materialismo dialettico come mezzo conoscitivo e allo stesso tempo come strumento di una profonda rivoluzione antropologica. Tale rivolgimento riguarda le stesse categorie assiologiche - "il Vero, il Bello, il Buono, il Giusto"[40] - ed è esplicitamente paragonato da Sereni all'avvento del cristianesimo: nel corso della "scena grandiosa di Gesù e Pilato nel Pretorio", il "fabbro di Nazareth" per primo afferma tanto il carattere partitico della "verità" - Qui est ex veritate audit vocem meam - quanto "la certezza che la sua verità, la verità di classe degli umiliati ed offesi, la verità del Partito dei cristiani, sia la Verità senza aggettivi"[41].
Se Togliatti e gli altri principali responsabili della politica culturale del partito - pur con tutto il settarismo e la violenza verbale imposti dai tempi - non si spingevano mai fino a un'assunzione letterale del modello politico-culturale sovietico a paradigma antropologico universale, Sereni non conosce esitazioni in merito: ancora nel giugno 1949, a una riunione della Commissione cultura, egli critica la mancanza di iniziativa dell'intelligencija comunista e soprattutto la sua incapacità di contrastare "la svalutazione della funzione dirigente dell'Unione Sovietica non sul terreno politico ideologico (
) ma sul terreno culturale". A chi durante la riunione aveva insistito sulla necessità di essere "molto cauti nel portare a noi le esperienze sovietiche", Sereni risponde rivendicando "un atteggiamento fideistico", per cui "tutto ciò che viene da quella parte è considerato roba nostra" e "tutti quelli da quest'altra parte sono nemici"[42].
Perno di questo fideismo totalizzante è la concezione staliniana e danoviana del materialismo dialettico come "metodo che compenetra tutte le scienze"[43], "momento universale unitario"[44] della cultura e supremo principio regolatore dell'esperienza e dell'attività umane, che permette e anzi richiede al detentore dell'ortodossia - a chiare lettere, il Comitato centrale del partito - continui interventi in ogni campo: di qui l'apologia degli studi linguistici di Stalin, degli esperimenti scientifici di Lysenko[45], della storiografia mitologizzata del Breve corso di storia del Vkp(b)[46], e naturalmente del realismo socialista in arte e letteratura. Caratteristico, a tale proposito, il motto desunto da Tommaso Campanella - "
perché conoscitor e fabbro io sia", posto a epigrafe dell'intervento programmatico Gramsci e la scienza d'avanguardia[47]: l'arte socialrealista ha una funzione allo stesso tempo epistemologica (come descrizione dei processi storici e previsione del loro esito) e catalizzatrice (come stimolo pedagogico che educa le masse e le spinge all'azione trasformatrice nella direzione auspicata/pianificata dai detentori dell'ortodossia).
L'estetica e la critica sovietica, che coscientemente collaborano alla costruzione dell'uomo nuovo, conducono la loro lotta su due fronti (
). Lo storicismo dell'estetica sovietica non è solo parziale, rivolto verso il passato, contemplativo; non è solo teorico, non si limita a registrare ed a giudicare un concetto di Bello e dell'Arte che sia già dato e conquistato; ma è totale, rivolto verso l'avvenire, attivo; radica l'arte nuova dell'umanità socialista nella tradizione dell'umanità lavoratrice, ma coscientemente, scientificamente le addita vie nuove e con la sua pratica rivoluzionaria interviene ad aprirle[48].
Vera e propria bestia nera di tale dottrina è la tendenza cronica dei singoli e dei gruppi sociali ad abbandonarsi alla "spontaneità", ossia a ricadere nell'accettazione passiva e subalterna delle sovrastrutture - pregiudizi, credenze religiose, ideologie - sedimentatesi in secoli di lotta di classe e segmentazione sociale: "quella forza contro la quale, nel dramma di Schiller, persino Wallenstein, l'ardito condottiero, si confessava impotente a combattere, ma che pure l'umanità deve battere, per costruire il mondo e la cultura nuova: la forza di quel che è sempre stato"[49]. Si tratta della nota tesi staliniana sul costante ritardo della visione del mondo delle masse arretrate rispetto all'evolversi del modello socio-economico: "la coscienza delle persone", - aveva dichiarato Stalin al plenum del Comitato centrale in occasione del termine del primo piano quinquennale, - "soffre di un ritardo di sviluppo rispetto alla loro condizione fattuale" [50]. La tesi, nella fattispecie, serviva a spiegare il consenso che i "nemici del popolo" trovavano presso strati della popolazione che, vivendo nel socialismo, a rigor di logica avrebbero dovuto essere ormai impermeabili alla propaganda controrivoluzionaria: non a caso la teoria del 'ritardo permanente' era strettamente connessa con l'altro assunto chiave dello stalinismo, quella 'legge dell'inasprimento progressivo della lotta di classe' che, enunciata nel corso della medesima relazione, sarebbe servita da base teorica per il Terrore degli anni seguenti. Del resto, in tale contesto proprio lo danovismo appare come un tentativo di superare la politica strettamente repressiva, ovviando al 'ritardo permanente' con una pedagogia di massa che unisce i moderni sistemi di comunicazione ad elementi mitologici desunti dall'epos arcaico (immagine sacralizzata del 'capo', culto del sole, della fertilità, del sotterraneo 'fabbro divino', riti purificatori e lustrali), atti a far presa sull'immaginario di masse ancora assai arretrate e 'riforgiarle', coinvolgendole nella dialettica culturale[51].
Non stupisce che il tratto fondamentale della politica culturale danoviana - rendere le masse popolari partecipi della dialettica culturale in Paesi contraddistinti da arretratezza e forte segmentazione sociale e da una tradizione di elitarismo nella fruizione della cultura - sia sottolineato da Sereni in un necrologio che, in termini fortemente apologetici, rivendica l'eredità di danov per spezzare il tradizionale arcaismo della politica e della cultura italiane: "l'abisso economico e sociale che da noi separa le classi lavoratrici dalle classi possidenti, il peso di una tradizione aulica nella nostra cultura, danno un particolare rilievo alla maledizione della divisione tra teoria e pratica, tra libro e lavoro, tra cultura e vita"[52]. Per colmare tale "abisso" è necessario "far si che l'adeguamento ideologico dei nostri artisti ai loro compiti di lotta per una cultura nuova non sia abbandonato alla spontaneità, ma si sviluppi in una direzione e sotto una direzione attiva e cosciente"[53]. è sempre danov a suggerire lo strumento per aiutare gli uomini di cultura ad 'adeguarsi ideologicamente': la pratica della critica/autocritica.
In un importante intervento dell'agosto 1946 più volte celebrato da Sereni, danov afferma che la samokritika svolge nel contesto sovietico il ruolo che la democrazia "formale" ricopre nella società capitalista, ossia è un "nuovo tipo di sviluppo" e una "nuova legge dialettica" che regola i processi di cambiamento: nella società priva di classi, "la lotta tra il vecchio e il nuovo e, di conseguenza, lo sviluppo dall'inferiore al superiore, non avviene nella forma di una lotta di classi antagoniste, di cataclismi, come avviene nel capitalismo, bensi nella forma della critica ed autocritica"[54]. La leadership staliniana - temendo il consolidarsi del potere dei quadri medio alti con effetti destabilizzatori e degenerativi per il sistema - si dota di una serie di regole che garantiscono una certa interazione fra la base e il centro quando quest'ultimo lo ritenga necessario: ad essere predeterminati dal Partito non sono i risultati delle varie "discussioni", ma le modalità, il contesto culturale e ideologico e gli schemi retorici, sul modello del "centralismo democratico" vigente nei congressi di Partito, il che garantisce anche l'inappellabilità delle decisioni prese[55]. Lo stesso Sereni, del resto, pare del tutto conscio di quanto le discussioni di samokritika, come ogni rito, siano azioni collettive formalizzate, un misto di discorso verbale e azione pratica che fornisce il nucleo dell'identità sociale e dell'agire della comunità: "con questo metodo non solo formalmente, ma sostanzialmente democratico, noi pensiamo di avviare gli intellettuali del nostro Partito al superamento del distacco che ancor oggi spesso in essi esiste fra il loro orientamento politico, di classe, e l'indirizzo della loro attività produttiva sul terreno culturale che resta ancora spesso legato a tradizioni e forme e contenuti di classi estranee e avverse"[56].
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Il tentativo di serrare i ranghi ideologici si era del resto già annunciato al VI congresso (gennaio 1948), con la modifica dell'art. 2 dello statuto: se precedentemente si consentiva l'accesso al partito a "chiunque avesse raggiunto il 18° anno di età, indipendentemente dalla razza, dalla fede religiosa e dalle convinzioni filosofiche", ora si fa obbligo al militante di "osservare scrupolosamente la disciplina di Partito" e di "esercitare la critica e l'autocritica per il miglioramento delle sue attività e di quelle del Partito"[57]. I puntini sulle i li mette Togliatti in persona, che durante il suo intervento stigmatizza la "tendenza a isolarsi, a starsene in disparte" degli intellettuali[58]. Si tratta di un impianto concettuale molto vicino a quello di Sereni, né, sempre secondo Togliatti, la tendenza degli intellettuali all'autoreferenzialità manca di ricadute in campo propriamente estetico: ad essa si deve infatti ascrivere la "tendenza all'oscurità e all'astrusità dell'espressione" e un generale "distacco dalla vita". Il segretario del Pci conclude rivendicando con forza il carattere partitico dell'attività intellettuale[59].
Non era difficile cogliere il deciso cambiamento di clima: "Nel discorso di Togliatti c'era, verso la fine, un breve accenno agli intellettuali del partito", - annota il 9 gennaio Sibilla Aleramo, - "di lieve rimprovero per una specie di insufficienza nostra dal punto di vista marxistico. Risposero l'indomani Marchesi e Banfi, piuttosto debolmente"[60]. Tutte sottigliezze di scarso interesse per Sereni, cui proprio durante il Congresso viene affidata la neonata Commissione culturale del Partito, col compito di "accentuare il carattere politico, organizzativo di lotta che occorre imprimere" al lavoro culturale e porre fine alla "polverizzazione dell'attività intellettuale"[61]. Divenuto cosi il perfetto omologo di danov anche sul piano delle cariche ricoperte, "piccolo, grosso, duro, tutto muscoli, ostinazione ed energia, caricato come una macchina"[62] egli si mette subito all'opera, come testimonia ancora l'Aleramo: "Ieri poi Sereni, ch'è stato chiamato a capeggiare il movimento culturale, ha riunito, fuori del congresso, gli intellettuali presenti a Milano, per una discussione sulle direttive da seguire. Cinque ore, spossanti (Ho appreso cosi, non senza silenzioso divertimento, che io faccio parte dei cosiddetti 'quadri' del partito, che sono anzi 'quadro' io stessa)"[63]. L'Aleramo non sembra prendersela troppo, e del resto la sua produzione si dimostra assai duttile alla forgia ideologica di Sereni. Si pensi a quel Russia alto paese in cui l'attempata poetessa rievoca in prosa e in versi un suo recente viaggio nel paese dei Soviet: "ogni volta risalutavo Gorki sul suo piedistallo, e più in là la statua, anch'essa recente, di Puskin, e oltre ancora quella di Gogol", scrive l'Aleramo, celebrando in termini solennemente sacrali l'osmosi raggiunta in Urss fra cultura, popolo e potere, il "culto riconoscente per i poeti (
) nei quali il genio enorme era sempre sorretto da presentimenti e fermenti rivoluzionari (
). è un culto che procede parallelo a quello tributato ai due grandi artefici del mondo nuovo, Lenin e Stalin"[64]. Il pathos divinatorio e millenaristico - non esente dalle fascinazioni nietzscheane condivise da Aleramo in gioventù - si dispiega compiutamente in chiusura:
Il dopo, per il popolo sovietico d'oggi, non è nell'ultra terreno, è invece proprio quaggiù, quello che vivranno i posteri su questo nostro globo, quello che i sovietici d'oggi preparano con fede veramente di illuminati, e collettivamente, si, ora che hanno raggiunta una base di sicurezza materiale per tutti: è in un avvenire che essi appena intravedono, che potrà forse un giorno chiamarsi paradiso, un paradiso di esseri umani che guarderanno al nostro presente come oggi si guarda ai progenitori trogloditi (
); un'umanità pura di ogni delitto, di ogni odio, chissà mai quanto meravigliosa nel suo infinito procedere[65].
Così Aleramo e come lei molti altri, mentre temperamenti più indocili subiscono la pialla ideologica di Sereni con evidente disagio. è il caso di Vittorini, "demoralizzato" reduce di reiterate riunioni di 'orientamento' con Sereni e già prossimo ad abbandonare il partito: "quando mi si dice che il Partito non sa cosa farsene della 'spontaneità' mi si nega ogni possibilità di lavoro creativo". - Scrive egli agli inizi dell'anno. - "Io finora avevo pensato che il Partito potesse curarsi di (
) suscitare un nuovo tipo di spontaneità. Ma (
) negare la spontaneità di per se stessa, questo non lo avevo mai sospettato nel Partito (
). Ma i miei libri sono soltanto spontaneità. Se io ne tolgo la spontaneità, a che cosa li riduco?"[66]
Inizialmente Sereni accompagna il richiamo all'ordine e la lotta contro la "spontaneità" con un grande sforzo di innalzare il livello ideologico dei quadri e di trasformare l'ortodossia marxista in un diffuso "senso comune" tramite la creazione di una rete di iniziative editoriali, biblioteche, filodrammatiche, cinema e case della cultura. Non mancano neanche tentativi di uscire dal recinto di Partito e promuovere intese più larghe contro un regime democristiano che esercitava un'attrattiva ben scarsa sugli intellettuali: ne è esempio l'"Alleanza per la cultura", lanciata da Sereni stesso nel febbraio 1848 intorno al programma di "introdurre nella direzione della cultura italiana degli elementi di direzione e di controllo democratico da parte degli uomini della cultura stessi, delle loro organizzazioni e da parte delle masse dei consumatori di cultura"[67].
Tali cauti tentativi ecumenici cessano del tutto dopo la sconfitta elettorale del 18 aprile e dopo i moti per l'attentato a Togliatti, seguiti da una dura repressione anticomunista[68]. Il partito è sconfitto nelle urne, nelle piazze e, dopo la spaccatura della Cgil, anche nel mondo sindacale: "subito dopo il voto arrivò il diluvio - un onda di fondo che travolgeva tutto"[69]. La drammatizzazione radicale del sistema politico non riguarda del resto solo il piano nazionale: nella primavera esplode la questione tedesca e, con la conferenza Cominform di Bucarest, la frattura fra Urss e Jugoslavia. Si pone dunque il problema di un ulteriore radicamento di massa come questione di sopravvivenza per il Pci, e il problema identitario diviene determinante: "Il transfert collettivo, che interiorizza nel potenziamento del partito l'obiettivo della trasformazione sociale, esprime anche arroccamento, separazione, non condivisione delle 'regole del gioco'"[70]. La politica culturale del partito assume le forme di una mobilitazione a tempo pieno degli intellettuali intorno ad alcuni temi dettati dalla contingenza politica e ossessivamente riproposti: la difesa delle "tradizioni nazionali" contro l'"americanismo decadente"[71], la "lotta per la pace" e - dopo la scomunica vaticana del luglio 1949 - contro "l'oscurantismo clericale"[72].
Tale macchina ideologica si innesta - soprattutto in certi segmenti della popolazione - in culture ancora molto legate a una concezione mitologica della storia, dove il mito dell'Urss e di Stalin aveva facile presa su una mentalità patriarcale in larga parte premoderna; ne sono esempi carichi di pathos messianico il noto motto ha da venì Baffone e, sul piano della letteratura colta, il protagonista di un racconto di Leonardo Sciascia, Calogero Schirò, che attribuisce a Stalin lo stesso soprannome di Garibaldi[73].
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Le posizioni teoriche e le pratiche danoviane raggiunsero il massimo grado di intensità nel periodo immediatamente successivo al Congresso degli intellettuali per la pace tenutosi a Wroclaw il 25-28 agosto 1948: come a farlo apposta, nel corso del suo svolgimento - presieduto alternativamente da Aleksandr Fadeev e da Renato Guttuso - giunge la notizia della morte improvvisa di danov, del che il pittore siciliano rende subito una commossa testimonianza[74]. Con una commemorazione di danov si apre la riunione del Comitato centrale del 23-24 settembre 1948, nel corso della quale - si noti, in concomitanza con l'inizio dell'"affare Gomulka" e dell'ondata di epurazioni fra i dirigenti comunisti dell'Europa orientale - Longo dichiara abrogati i precedenti criteri "ecumenici" nel reclutamento degli iscritti.
Sulla rivista diretta dallo stesso Longo, Sereni celebra "l'arma decisiva del marxismo-leninismo (
), la bomba atomica di una ideologia, che è capace di abbattere tutte le muraglie cinesi che separano il popolo dalla cultura"[75]. è il momento dell'affondo decisivo contro la "spontaneità" intellettuale: nel già citato necrologio su "Rinascita" sono rievocate con nostalgia le famose campagne intimidatorie condotte da danov - "modello di combattente per il trionfo del comunismo" - contro gli intellettuali anticonformisti (ostakovič, Zosčenko, Achmatova): "Non è il tono dei nostri cortesi critici da salotto che Andrea danov usava nella sua lotta contro i residui della vecchia cultura, ma quello stesso tono che egli usava contro i kulak, al tempo della lotta per la collettivizzazione"[76]. E, in merito al congresso di Wroclaw, Sereni stigmatizza il "provincialismo" degli oratori occidentali a paragone di quelli sovietici, Fadeev, Ehrenburg, Zaslavskij, rappresentanti "di una cultura nuova, che non è più la cultura di intellettuali distaccati dalle masse della gente semplice, ma è divenuta cultura di tutto un popolo"[77]. A corroborare tali posizioni seguiva la pubblicazione - in contemporanea su ben due organi del Pci - del discorso di Fadeev a Wroclaw: un veemente vituperio dell'intera cultura occidentale, verminaio di "anticultura" reazionaria, degenerata e fascista, da cui gli intellettuali di buona volontà sono chiamati a purificarsi "ispirandosi all'esempio del paese del socialismo"[78].
Asserita in modo tanto perentorio, la tesi secondo cui l'intellettuale borghese poteva redimersi dal proprio spontaneismo elitario solo dissolvendo il proprio 'io' tradizionale nei rituali psicotropi della cultura sovietica provocò - come presumibilmente Sereni aveva messo in conto - una vivace reazione da parte di numerosi uomini di cultura comunisti o simpatizzanti: da Libero Bigiaretti a Francesco Jovine, allo stesso Alberto Moravia[79]. "Non mirano a fare opere. Teorizzano una poetica che sia l'esatta riflessione del momento presente (
). E poi perché far l'opera? Nel tempo di farla sarebbe già invecchiata, imitabile, un compromesso con la realtà, la tradizione, sarebbe storia oggettiva". Cosi Pavese - in un appunto rimasto allora inedito - formula il proprio disagio di fronte alle pretese real-socialiste: "sono impazienti - vogliono lo stile dell'epoca, non opere, sono astratti, attenti solo a non sbagliare la corrispondenza astratta e puntuale col momento presente"[80]. Ma è Calvino, che già nel novembre 1948 aveva manifestato il proprio disagio di fronte alla definizione danoviana dello scrittore come "ingegnere delle anime"[81], a tirare pubblicamente le somme della polemica un mese dopo, rivendicando - con una garbata ironia cui sottende l'inquietudine - l'irriducibilità della concreta pratica artistica alle esigenze del dettato ideologico:
(
) arriva un momento in cui la "direzione ideologica" (che io - ci tengo a dirlo - sento non come un limite o un "dovere" esterno, ma come uno strumento del mio lavoro, una condizione della mia libertà), si ferma e ci lascia soli di fronte al foglio bianco o alla tela, e allora non c'è cristi, dobbiamo cavarcela da noi. E tu hai un bel dire, caro Sereni, a un certo momento hai messo tutto a punto, hai stabilito un chiaro concetto di quel che oggi ha da essere la nostra letteratura e la nostra arte, e t'allontani fregandoti le mani. è allora che comincia il lavoro nostro e che cominciano davvero i problemi[82].
E il problema principale, non a caso, secondo Calvino riguarda proprio l' 'io' dello scrittore, quella spontaneità individuale che, prodotto da una determinata configurazione sociale, rimane il cardine della cultura contemporanea e impedisce agli artisti di assolvere il compito loro indicato dalla politica: "arrivare a quel realismo 'totale', a quella capacità omerica di far nascere la poesia quasi direttamente dalla natura e dalla storia 'come se l'autore non ci fosse'". Ancora una volta, Calvino si appella direttamente al supremo sacerdote dell'ortodossia: "Perché tu, Sereni, te la cavi a buon mercato, quando dici a Bigiaretti: sii Omero. Alla grazia! Ma la distanza tra noi e Omero come la colmi?" Dati i tempi inevitabilmente lunghi di un'evoluzione culturale appena ai suoi inizi, si impone un rapporto più mediato fra lavoro intellettuale e direzione politica, il cui ruolo è "non certo progettare riforme letterarie, che non si possono improvvisare da un giorno all'altro come non si può improvvisare una riforma agraria in un paese di piccoli proprietari. Né pretendere che ogni voce e ogni richiamo che si levano da questa fucina ancora in ebollizione siano formulati in un impeccabile 'stile di partito'". Il ruolo del partito è semmai "quello della critica, non quello della 'direttiva' sull'ispirazione", tanto più che - non manca di notare Calvino - "va sempre tenuto presente che finchè uno stabile legame tra masse e 'produttori di cultura' non s'organizza, finchè i libri non saranno discussi nelle fabbriche e nelle fattorie, non si può ancora dire d'avere una 'direzione culturale'". Ossia: in assenza di un generale e omogeneo quadro di rapporti socio-economici oggettivamente strutturato in senso socialista, la "direzione culturale" del partito minaccia di rispecchiare non un reale coinvolgimento delle masse, ma le personali idiosincrasie dei membri dell'apparato o, nel migliore dei casi, i gusti diffusi nei segmenti geografici e sociali del paese a più profonda penetrazione comunista.
è certo questo uno degli handicap di partenza che inibisce al realismo socialista nostrano la capacità di favorire la sempre rivendicata osmosi fra intellettuali e masse e di incidere durevolmente nell'opera di rinnovamento culturale. A cavallo degli anni Quaranta e Cinquanta, il Pci è profondamente coinvolto nei processi di trasformazione sociale in aree circoscritte del Paese: nelle regioni del centro Italia, dove - innestandosi su tradizioni precedenti - il partito si mostra capace di "incapsulare organizzativamente e saturare ideologicamente antichi cleavages socioculturali"[83], favorendo una 'transizione dolce' alla modernità; in alcune regioni meridionali, le più arretrate, nel contesto di lotte per la ridistribuzione fondiaria contrassegnate da un accentuato primitivismo e dall'estraneità a qualsivoglia intento collettivistico. La capacità di incidere sulle veloci trasformazioni socio-economiche in atto nelle regioni industriali del nord rimane invece scarsa, come mostrano le elezioni politiche del giugno 1953 e il crollo del sindacato comunista nelle commissioni di fabbrica nel marzo 1955, spiegabile solo in parte con la dura repressione anticomunista condotta nelle grandi fabbriche.
è naturale che la cultura espressa e promossa dal partito in questo periodo riproduca tali rapporti di forza geografici e sociali, andandosi a incardinare in una strategia "meridionalista" che celebra nella linea De Sanctis-Labriola-Croce-Gramsci i propri mentori, in Verga il modello del realismo letterario[84] e nel realismo regionale ottocentesco gli archetipi figurativi. Ne deriva un 'realismo' nazional-popolare solo apparentemente conforme al modello sovietico, essendo quello - come si è detto - intessuto si di simbologia arcaica, ma finalizzato a un disegno modernizzatore, urbano e industriale. Nel realismo socialista italiano la fabbrica è invece del tutto assente, e non a caso i due eventi letterari che in questi anni più appassionano la critica di area comunista sono Le terre del Sacramento di Jovine (1950) e Metello di Pratolini (1955): due opere di valore ma ugualmente impregnate di populismo regionalistico e arcaizzante. Esiti analoghi si hanno anche nel campo delle arti figurative: ben diversamente da quanto si dà in area sovietica, il realismo pittorico italiano è meridionalista e agrario. Nei confronti della modernità prevale un diffuso senso di disagio, come rievoca uno dei leader del movimento realista, Antonello Trombadori: "Nel dipingere città e fabbriche da noi al massimo si arrivava dove Sironi era arrivato venti o trent'anni prima: l'agglomerato urbano e industriale visto come minaccia per l'uomo"[85].
L'età d'oro dello danovismo italiano ha del resto breve durata, sia per i limiti intrinseci testè accennati, e sempre più evidenti in un contesto socioeconomico in via di rapida modernizzazione, sia per il mutare degli equilibri politici all'interno del partito: "Il Pci partiva da De Sanctis per arrivare a L'Agnese va a morire di Renata Viganò. Non era un gran percorso"[86] - rievoca, pur in chiave polemicamente riduttiva, Rossana Rossanda. Nel 1951 Togliatti torna saldamente al comando dopo il tentativo - compiuto congiuntamente dal gruppo dirigente sovietico e dall'ala più stalinista del Pci - di giubilarlo relegandolo a Mosca come segretario del Cominform. Inizia una lenta ma costante opera di erosione del blocco dei "duri" riuniti intorno a Pietro Secchia: in aprile Sereni è sostituito alla guida della Commissione culturale dal più giovane e pragmatico Carlo Salinari, che già nel Promemoria sul lavoro culturale presentato a una riunione della Direzione in luglio critica l'atteggiamento "difensivo" e "semplicistico" assunto fino ad allora dalla commissione. Si tratta ora di promuovere larghe alleanze e di concentrare gli sforzi per lo "sviluppo di una nostra produzione culturale qualificata"[87]: ne segue un più ampio dibattito nel partito, la riorganizzazione della Fondazione (poi Istituto) Gramsci, con lo scopo - abortito - di trasformarla in "libera università" sul modello della Cattolica di Milano.
È il canto del cigno dello danovismo italiano, e del nuovo clima è documento singolare - e purtroppo oggi misconosciuto - il reportage scritto da Calvino durante un viaggio in Urss nell'ottobre 1951. La retorica turgida e astratta propria fino ad allora di simili resoconti è qui sostituita da una vivace narrazione aderente alla quotidianità, spesso sul filo dell'ironia: siamo ormai lontani dall'epicità collettivistica invocata da Sereni, e la stessa "Mecca" - come nel gergo di partito si designava l'Unione Sovietica - è dipinta col tono disincantato di Marcovaldo[88]. E pure, l'ombra di danov aleggia ancora a lungo sul Pci. Ad esempio, all'ormai transfuga Vittorini, che in un noto intervento aveva rigettato "le risoluzioni oscurantiste che prendono nome da danov"[89], Togliatti risponde a muso duro in un'altrettanto celebre replica: "Sono di danov alcuni discorsi e scritti di critica letteraria e artistica dove si sostiene, per dirla con due parole, che l'arte dev'essere specchio della realtà sociale. Perché proprio questa posizione dev'essere 'oscurantista' e non la posizione opposta, per esempio? è partendo dalla posizione opposta, se non altro, che vengono esaltate come grandi opere d'arte opere dove proprio tutto è oscuro, perché la comune degli uomini non ci capisce nulla"[90].
Perché il clima cambi davvero, si dovrà attendere il 1953, quando la morte di Stalin, il successo del Pci alle elezioni e la sconfitta della "legge truffa" favoriscono una nuova ondata di vivacità e di apertura culturale. Il primo ad accorgersi delle nuove esigenze dei tempi è Togliatti in persona, né il segretario del Pci fatica a trovare il pretesto per 'dettare la linea' in materia. Un incontro svoltosi nel dicembre 1954 fra numerosi storici marxisti e Arturo Colombi (membro della direzione Pci e del direttivo dell'Istituto Gramsci) secondo il più classico rituale danoviano si era concluso con una violenta requisitoria da parte del responsabile dell'ortodossia, che aveva intimato agli storici professionali di praticare la propria disciplina come pedagogia ideologica di massa, secondo il modello del Breve corso di storia del PC(b). Ne seguono, cosa già di per sé irrituale, vivaci polemiche da parte degli storici, al cui fianco Togliatti non esita a schierarsi indirizzando al direttore del Gramsci Ambrogio Donini una lettera (Roma, 11 dicembre 1954) mirabile per tempismo, in cui - con notevole disinvoltura tattica - il principio del materialismo dialettico come "momento universale unitario" dell'esperienza viene sconfessato[91].
È una vera e propria pietra tombale sullo danovismo italiano. Com'è noto, i rapporti fra intellettuali e Pci torneranno ad arroventarsi nel 1956, ma il partito affronterà quella crisi sulla difensiva e privo della pietra filosofale teorico-pratica cui aveva creduto di potersi affidare nel 1948-1950. Nel corso delle polemiche del "terribile '56", c'è chi si sente autorizzato a rinfacciare a danov - su una rivista di partito! - "sconvolgente imbecillità e presunzione"[92], e la difesa d'ufficio di Valentino Gerratana - "Le idee di danov potrebbero benissimo essere criticate e rifiutate in termini più civili, senza offendere chi eventualmente intenda difenderle"[93] - suona ormai del tutto difensiva.
Notes:
© G. Carpi
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