Luciano Mecacci
La psicologia russa e le scienze psicologiche e psichiatriche in Italia nella seconda metà del Novecento
L'influenza della psicologia russa sulla psicologia e la psichiatria in Italia dagli anni '50 fino a oggi è stata notevole, più che in qualsiasi altro paese occidentale. Nei primi decenni dopo la seconda guerra mondiale, negli anni '50 e '60, per favorire la diffusione delle ricerche che si stavano svolgendo in Unione Sovietica è stato determinante il ruolo assunto dalla cultura italiana di sinistra, soprattutto nell'ambito delle istituzioni e dell'editoria (case editrici e riviste) dipendenti dal Partito comunista italiano. Si trattò di un canale "istituzionale" lungo il quale venivano diffusi in Italia non solo i testi classici del marxismo-leninismo e le pubblicazioni politiche ufficiali dell'Unione Sovietica, ma anche i risultati della scienza sovietica.
In alcuni settori scientifici, ad esempio la matematica, la fisica e la chimica, non sorsero particolari problemi ideologici, filosofici, politici o sociali. Nel campo delle scienze fisico-naturali una nuova scoperta o un nuovo risultato non avevano dirette ripercussioni di carattere più generale tra gli intellettuali italiani comunisti o di sinistra e venivano accolte come una nuova prova del progresso scientifico dell'Unione Sovietica. Non va dimenticato però che vi fu un acceso dibattito per quanto riguardò le teorie di Lysenko nel campo della biologia, della genetica, dell'agricoltura e della zootecnia. Quando in Italia si venne a sapere che nell'estate del 1948 si era tenuta a Mosca una seduta plenaria dell'Accademia delle scienze agricole in cui si proclamavano come ufficiali le teorie di Lysenko sulla ereditarietà dei caratteri acquisiti, in completa opposizione con i risultati della biologia e della genetica dell'epoca, con conseguenze serie per lo sviluppo dell'agricoltura e della zootecnia sovietiche, vari scienziati anche all'interno del Partito comunista italiano (PCI) criticarono apertamente questa posizione, ma furono accusati di assumere posizioni borghesi e anticomuniste (qualche scienziato dovette dimettersi dal Partito). Si trattò di una discussione di natura scientifica che non ebbe un impatto diretto sulla società italiana.[1]
La situazione fu diversa per la psicologia e la psichiatria. Infatti ben più rilevante sul piano sociale e politico sarebbe stata la ricaduta applicativa e concreta dell'adozione delle teorie psicologiche e psichiatriche sovietiche. Nel 1950 si tenne sempre a Mosca un'altra conferenza, curata dall'Accademia delle scienze, questa volta dedicata alle teorie del fisiologo Pavlov. Si decretò che queste teorie erano l'unica concezione ufficiale dell'Unione Sovietica nel settore delle ricerche sul cervello e sui processi psichici, normali e patologici. Tralasciamo gli effetti che ebbe la cosiddetta pavlovizzazione per la ricerca sovietica sul cervello. Sebbene Pavlov avesse dato un grande contributo allo studio della dinamica delle funzioni cerebrali, la dogmatizzazione della sua impostazione divenne subito un ostacolo allo sviluppo di queste ricerche: i laboratori russi, che tra la fine dell'Ottocento e i primi del Novecento, erano stati all'avanguardia a livello internazionale subirono una decadenza in molti casi irreversibile.2
In Italia le teorie di Pavlov furono diffuse da riviste vicine al Partito comunista e che in parte o completamente erano finanziate da esso: molti articoli di autori pavloviani e varie discussioni sulla psicologia comparvero sulle riviste Società, Rinascita e Medicina Sovietica. Nel 1963 fu pubblicato il libro di Angela Massucco Costa dedicato alla Psicologia sovietica che segnò in qualche modo la conclusione della prima fase della storia che stiamo illustrando. La Massuco Costa, oltre che docente di psicologia, era un deputato del PCI. In Italia vi era stato il "miracolo economico", la prima grande ripresa economica del paese dopo la tragedia della guerra, vi erano state profonde trasformazioni della vita sociale che avevano comportato nuovi problemi nel campo dei servizi sociali, della sanità e della scuola. Nei primi anni '60 la cultura italiana espresse, attraverso la letteratura e il cinema, le nuove condizioni di vita del paese e i disagi della nuova quotidianità, le "malattie dell'anima" - secondo una passata espressione dello scrittore Cesare Pavese - che si stavano manifestando nella nuova società italiana, ora benestante ma allo stesso tempo inquieta e scontenta. Nel 1960 Moravia pubblica La noia, nel 1963 Gadda ripubblica La cognizione del dolore, nel 1964 Berto pubblica Il male oscuro. In queste opere è presente una psicologia dell'uomo e della donna molto lontana da quella divulgata dai pavloviani comunisti italiani, per cui i riflessi condizionati avrebbero dovuto spiegare non solo elementari processi di apprendimento (esemplificati dal cane che saliva che al suono di una campanella prima dell'arrivo del cibo), ma anche la genesi delle nevrosi, della depressione e della schizofrenia. In quei romanzi si respirano altre teorie, altre concezioni dell'uomo legate alla tradizione europea, in primo luogo alla psicoanalisi. Inoltre, va ricordato, che la psicoanalisi in forme più o meno ortodosse, fu una costante del cinema italiano di quel periodo, come in L'avventura (1960) di Antonioni e Otto e mezzo (1963) di Fellini. Lo sfumare del pavlovismo italiano fu dovuto non tanto ad alcuni dibattiti di natura tecnica sui rapporti psicologia-marxismo e su quale tipo di teoria psicologica fosse più o meno adeguata ai principi marxisti (la teoria pavloviana? la teoria psicoanalitica?) quanto a questo più complesso quadro sociale e culturale italiano per il quale l'impostazione pavloviana risultò troppo riduttiva se non banale.3
Nella seconda metà degli anni '60 si entra in una seconda fase della diffusione della psicologia russa in Italia. Si deve ricordare il quadro politico e sociale più ampio di quel periodo in Italia: sono gli anni della contestazione e delle dure lotte operaie e sindacali, ma anche gli anni in cui la sinistra italiana avvia nuove importanti riforme sociali e, tra queste, quella che qui ci interessa di più è la legge 118 del 1970. Con questa legge nella scuola italiana vengono abolite le classi differenziali cui venivano destinati i bambini con ritardo nell'apprendimento dovuto a handicap fisici e/o mentali e si impone l'inserimento dei bambini handicappati nelle classi normali. Su questa nuova impostazione della scuola italiana ebbe una forte influenza la psicologia russa che si stava diffondendo in quegli anni e che nel corso degli anni '70 sarebbe divenuta il riferimento della ricerca psicologica e pedagogica in Italia. Nel 1966 fu tradotta, seppure in una edizione molto parziale (ma di questo parleremo più avanti), quella che è considerata l'opera più importante della psicologia russa del Novecento: Pensiero e linguaggio di Lev S. Vygotskij del 1934. Poi nel 1969 fu pubblicata l'antologia Psicologia e pedagogia, a cura di Marco Cecchini, con scritti di Vygotskij, Aleksej N. Leont'ev. Aleksandr R. Luria e molti altri autori della scuola storico-culturale. Questi due libri ebbero un impatto fortissimo su gli psicologi e gli insegnanti italiani, divennero una lettura obbligata per tutti. Le idee di Vygotskij, molto critiche nei confronti dello psicologo svizzero Jean Piaget, che per decenni era stato in Italia il riferimento fondamentale, cominciarono a essere accettate dalla sinistra italiana per la loro attenzione ai fattori storici e sociali, per il richiamo costante ai concetti di integrazione dei bambini handicappati e socializzazione dei bambini emarginati.4
Nonostante questa diffusione di nuovi autori russi, perdurava tra gli psicologi italiani vicini o iscritti al Partito comunista una specie di conflitto teorico e ideologico. Si aveva l'impressione che le teorie di Vygotskij non aderissero pienamente ai principi del marxismo-leninismo, tanto meno ai concetti pavloviani. Vi era l'esigenza di una spiegazione storico-teorica che non poteva essere soddisfatta con le opere scritte dagli autori occidentali, compresa la Massucco Costa, che avevano avuto la possibilità al massimo di fare una breve visita in Unione Sovietica e che si erano basati su letture dei libri e degli articoli più che su esperienze dirette nei laboratori e negli istituti di psicologia russi. A questo lavoro di ricostruzione storica della psicologia russa mi sono dedicato negli ultimi trenta anni proprio a causa della insoddisfazione provata quando scoprii che l'immagine diffusa in Occidente e che io avevo conosciuto attraverso i libri e le riviste "ufficiali" non corrispondeva allo sviluppo storico e alla situazione del momento.
La sorpresa fu grande quando nel 1972 mi recai per un primo periodo di alcuni mesi a lavorare nell'Istituto di Psicologia di Mosca, il vecchio e primo istituto fondato nel 1912, all'epoca in Ulica Marksa, oggi Ulica Mochovaja, al quale poi si affiancò il nuovo grande Istituto dell'Accademia delle Scienze, nel quale lavorai nei soggiorni successivi. Avevo scelto di lavorare in un laboratorio di psicofisiologia in cui si applicavano in forma rinnovata i concetti pavloviani. Era un laboratorio famoso in Europa e negli Stati Uniti perche le ricerche, dirette da V. D. Nebylitsyn, erano state pubblicate in inglese e avevano avuto una certa risonanza per la loro originalità. Però intorno al laboratorio, e forse anche al suo interno, tutti gli psicologi vecchi e giovani erano antipavloviani. Un interesse maggiore avevano le teorie di Vygotskij e dei suoi allievi, a cominciare da Leont'ev e Luria. Sebbene le opere di Leont'ev e Luria fossero regolarmente pubblicate (ma si ricordi che a Luria fu permesso pubblicare un'opera del 1932 solo nel 1974; e un'opera in inglese del 1932 è apparsa in Russia solo nel 2002(5), invece la diffusione delle opere di Vygotskij era limitata in conseguenza, seppure ormai implicita, del decreto del Comitato Centrale del 1936. Unica eccezione era state due raccolte di testi tagliati o censurati, tra cui Pensiero e linguaggio, apparse nel 1956 e nel 1960. Comunque Vygotskij era l'argomento principale di discussione, alimentata anche dalla pubblicazione in samizdat di suoi articoli inediti. Si pensi che solo nel 1982 si ricominciò a pubblicare Vygotskij, quando le due suddette raccolte erano ormai libri introvabili.
Mi posi quindi il problema di documentare e ricostruire la storia della psicologia russa. Guida fondamentale fu il mio maestro Aleksandr R. Luria, anche se spesso preferiva non affrontare alcuni nodi problematici di questa storia. Altro grande aiuto mi venne da Giuseppe Garritano, che allora era direttore editoriale della casa editrice del PCI, gli Editori Riuniti. Garritano, che apprezzava particolari correnti della cultura russa (aveva fra l'altro tradotto il libro di Bachtin su Dostoevskij), mi dette il via libera. Pubblicai dapprima un paio di antologie di psicologi russi: la prima su L'inconscio nella psicologia sovietica nel 1972 e la seconda La psicologia sovietica 1917-1936 nel 1974. Nel 1977 pubblicati poi la mia monografia Cervello e storia. La relazione tra psicologia e neurofisiologia in Unione Sovietica, per la quale scrisse la prefazione lo stesso Luria, e che fu pubblicata in inglese negli Stati Uniti nel 1979. Curai inoltre la traduzione di molti altri testi di Vygotskij, Luria e altri psicologi russi.6
Da questo lavoro derivò un quadro storico nuovo: da una parte una varietà e una ricchezza di orientamenti teorici e metodologici, dall'altra un interessante intreccio tra la psicologia come teoria e la psicologia come applicazione nello specifico contesto sociale e politico dell'Unione Sovietica degli anni '20 e '30. Si cominciarono a spiegare meglio le ragioni per cui nel 1936 vi fu il già ricordato decreto del Comitato Centrale che bandiva determinate scuole psicologiche e pedagogiche.
Nel frattempo in Italia si era ampliato l'interesse per la psicologia russa e si ebbero nuovi contributi e nuove traduzioni. Un particolare impegno nella esposizione e diffusione della scuola di Vygotskij e Leont'ev è merito di Maria Serena Veggetti, docente nell'Università di Roma, che aveva già tradotto nel 1966 parte di Pensiero e linguaggio.7 Un momento significativo di questo periodo fu il convegno che organizzai nel 1979 a Roma su Vygotskij. Mi si permetta di ricordare che fu il primo convegno, ne seguirono poi altri a Mosca, negli Stati Uniti, Messico, ecc., su questo psicologo che dagli anni '80 in poi sarebbe divenuto un riferimento costante nel dibattito psicologico contemporaneo.
Fu questo il periodo in cui gli studiosi occidentali erano più documentati, o perlomeno cosi sembrava nelle pubblicazioni o nei dibattiti pubblici, rispetto ai colleghi russi. Ricordo come a un congresso di storia della psicologia a Budapest nel 1988, quindi in tempi relativamente recenti, fu organizzato un simposio su Vygotskij cui partecipò una piccola delegazione russa. Le comunicazioni dei colleghi russi furono corrette e interessanti, ma erano basate su testi e documenti limitati. Ancora Vygotskij veniva presentato come un innocuo teorico della psicologia, omettendo che aveva avuto incarichi pubblici (era stato Commissario del Popolo, collaboratore di Lunačarskij, ecc.) e che proprio per le applicazioni pratiche della psicologia era stato censurato e bandito. Nacque un acceso, seppure amichevole, dibattito quando fu fatto presente che scritti di Vygotskij come Il fascismo in psiconeurologia avevano forti connotazioni ideologiche e politiche. I colleghi russi, in buona fede, negarono che Vygotskij avesse mai scritto un'opera del genere. Non avendo con me il libro, non riuscii a convincerli.
Questa situazione è cambiata completamente negli anni '90. La storiografia russa ha prodotto opere di grande valore, a un livello di documentazione impossibile per uno studioso occidentale. Oltre a libri e articoli, si sono resi disponibili documenti inediti e testimonianze personali. Cosi per Vygotskij è fondamentale la monografia scritta dalla figlia Gita, mentre per la psicoanalisi russa una svolta è venuta dal libro di Etkind, Eros dell'impossibile, mentre un altro libro molto interessante è quello della storica delle idee Irina Sirotkina sui rapporti tra psichiatria e letteratura russe dal 1880 al 1930.8
Per uno storico, russo o occidentale, c'è comunque ancora molto da lavorare soprattutto per quanto riguarda i rapporti tra la psicologia, la psichiatria e la società russa nel Novecento. Può essere, in primo luogo, un lavoro limitato ai soli testi, attraverso una nuova lettura attenta ai riferimenti storici, agli interventi della censura, ecc. Mi si consenta di fare solo l'esempio relativo al lavoro che ho svolto su Pensiero e linguaggio di Vygotskij, quando ne curai la traduzione italiana nel 1990.9 Il libro, uscito a Mosca nel 1934, pochi mesi dopo la morte di Vygotskij, inscritto tra le opere non gradite allo stalinismo, dopo il decreto del 1936, fu ristampato nel 1956 e poi nel 1982. Da un confronto tra le tre edizioni, scoprii che nel 1956 il testo della prima edizione del 1934 era stato pesantemente censurato, con tagli notevoli oltre che ripetute modifiche di parole, avverbi, ecc. Poi però nel 1982 ci fu un nuovo imponente intervento della censura e venne modificato di nuovo il testo già modificato del 1956. Facendo attenzione al tipo di modifiche operate nel 1956 e nel 1982 si può ricostruire quale tipo di problemi ideologici e politici ponesse uno stesso testo nel contesto della mutata realtà sociale e politica dell'Unione Sovietica negli anni '50 e negli anni '80.
Infine voglio ricordare due temi molto complessi ma molto interessanti per la storia della psicologia russa riguarda - il primo - la questione dei bambini bezprizorniki negli anni '20 e '30, su cui vi sono studi italiani recenti10, e - secondo - la questione delle nazionalità e delle relative differenze culturali (con i connessi temi della integrazione sociale, scolastica, ecc.) sempre nello stesso periodo.11 Si tratta di tematiche (l'infanzia abbandonata e l'intercultura) importanti e attuali che accomunano gli interessi degli psicologi russi e italiani.
Infine un ultimo argomento, il problema della psichiatria: la sua storia, il suo ruolo nella vita sociale e politica della Russia. Quando negli anni '50 la teoria pavloviana venne diffusa in Italia come il modello da adottare non solo nel campo degli studi sul cervello e in psicologia, ma anche in psichiatria (Pavlov, come è noto, aveva proposto anche una teoria dei processi psicopatologici, nevrosi e psicosi comprese), l'accettazione di questa proposta da parte degli psichiatri e degli psicoterapeuti italiani fu molto rara o prudente. L'influenza della psichiatria classica tedesca, soprattutto delle correnti fenomenologiche e esistenzialiste, avviate da Jaspers e Binswanger, e della psicoanalisi, era stata fortissima tra gli psichiatri e psicoterapeuti italiani per cui era difficile un loro ripiegamento nel riduzionismo fisiologico pavloviano. Quando iniziò il movimento di critica alla psichiatria tradizionale di impostazione biologico-farmacologica e all'uso di terapie sedative e costrittive, movimento che culminò nel 1978 con la nota Legge 180 sulla riforma psichiatrica (l'effetto più tangibile fu la chiusura degli ospedali psichiatrici), si operò un ulteriore allontanamento dalle posizioni ufficiali pavloviane. Si deve riconoscere che non ci fu però alcuna presa di posizione altrettanto ufficiale nel PCI e in generale nella intellighenzia italiana di sinistra. Nel 1978 l'Istituto Gramsci, l'istituzione culturale del Partito comunista italiano, organizzò un importante convegno su "Momenti e problemi della storia dell'URSS", cui parteciparono molti politici e intellettuali interni e esterni al Partito. Il prof. Vittorio Strada vi presentò una relazione su "Politica e cultura nell'URSS". Io lessi una relazione su "L'uomo nuovo sovietico" mettendo in evidenza come dietro quella espressione di propaganda vi fosse non solo una ovvia carica utopica, ma anche una modalità di legittimazione della repressione psichiatrica per chi avesse deviato da quel modello. L'accenno a questo problema, l'invito a discuterne non fu raccolto, e probabilmente non solo perche veniva da un giovanissimo relatore. Quello che ci interessa non è però il silenzio dei politici italiani sull'uso della psichiatria in Unione Sovietica come repressione della dissidenza politica (e comunque vi furono anche in Italia alcune eccezioni di denuncia e protesta), quanto il silenzio degli psicologi e degli psichiatri italiani, a differenza di quanto accadeva tra i colleghi di altri paesi europei. Poteva essere anche solo un discorso di natura tecnica e scientifica: si poteva notare che mentre nel nostro paese si affermava l'inutilità terapeutica dell'internamento psichiatrico, e quindi i pazienti uscivano fuori dagli ospedali psichiatrici, in uno dei paesi considerati all'avanguardia sociale e scientifica si ampliavano al contrario le funzioni per cosi dire terapeutiche di questi luoghi di emarginazione. Invece non ci fu mai una iniziativa collegiale simile a quelle intraprese dalle comunità scientifiche di altri paesi.12
Riassumendo, per la psicologia e la psichiatria italiane, le teorie sviluppate in Russia e in Unione Sovietica non hanno rappresentato solo un modello da adottare riconoscendone l'originalità e la validità scientifica. Se si considerano anche le modalità con cui queste teorie russe si sono diffuse in Italia, si può comprendere meglio lo stesso sviluppo della ricerca italiana in questo campo: come essa sia stata fortemente influenzata e condizionata da ragioni di natura ideologica e politica.
NOTE:
© L. Mecacci
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