Cesare G. De Michelis
Il"testo russo" nella narrativa italiana del XX secolo
"Quantunque non sia più sede del governo e sia molto decaduta dall'antico splendore, un po' per incuria degli abitanti ed un po' per volere dell'Impero Moscovita, che mirava ad inalzare invece Omsk ed Irkutsk, Tobolsk è rimasta ancora una delle più importanti, delle più popolose e delle più pittoresche città della Siberia occidentale"[1]:
così Emilio Salgàri, uno dei più popolari scrittori italiani d'avventura, iniziando il suo romanzo ambientato negli anni del nihilismo con cui all'alba del XX secolo inaugurava il suo "ciclo russo"[2], in grado di competere col più famoso Michele Strogoff (1876) di Jules Verne nel delineare per il pubblico europeo una fascinosa immagine della "russità". Il grande fascino geo-politico della Siberia per la cultura italiana è testimoniato sia dal romanzo adolescenziale di Ettore Lo Gatto I misteri della Siberia (1903)[3], che dall'opera lirica di Umberto Giordano (1903)[4]. Alle spalle c'era una lunga tradizione letteraria, risalente almeno alla versione italiana (a cura di Elisabetta Caminer) del Menikov (1776), una tragedia d'autore ignoto probabilmente da identificare in Andrej Suvalov[5]; ma il "mito della Siberia" continuerà ad essere vivo nella letteratura italiana fino alla fine del XX secolo, come attestano La conchiglia di Anataj di Carlo Sgorlon[6] (l'epopea della transiberiana impiegata per un ampio affresco della vita russa prima della Rivoluzione, della quale la "conchiglia" rappresenta l'amuleto eponimo) o il romanzo per ragazzi Alla stazione di Omsk di Maria Luisa Valenti Ronco[7].
Un decennio dopo il romanzo "siberiano" di Salgari, Giovanni Pascoli celebrò Lev Tolstoj a ridosso della sua scomparsa, in chiave marcatamente francescana:
"Ma il Santo, vòlto al suo compagno: "Frate
Leone,- disse, -or va per altra via,
ché a me conviene ora fuggir celato..."
E sparve. E l'altro uscito dalla terra
andò ramingo per ignote strade"[8],
dando voce al senso di grande respiro prodotto dalla letteratura russa nella cultura italiana, da trent'anni almeno a quella parte[9].
Dopo guerra e la Rivoluzione del 1917, il "tema russo" conobbe una rigogliosa effervescenza anche in Italia; tra i molti esempi possibili, ne addurrò intanto uno, che però riguarda la guerra russo-giapponese (1905), rifuggendo da implicazioni storico-politiche per il gusto d'un mero ghiribizzo, degno di Daniil Charms:
"-Nella trincea i cosacchi aspettavano l'ordine d'assalto. Alle dieci il tenente Ilieff [Il'ev'] comandò: "Baionetta in canna". Un minuto dopo i giganteschi figli del Don si precipitavano urlando contro il nemico. Le artiglierie tuonavano, il crepitio della fucileria era impressionante.
"-Ragazzi, qui si balla, - disse il maggiore Wossiloff [Vasil'ev']. Intanto dalla trincea nipponica i soldati uscivano a nuvoli, come cavallette. Ancora pochi secondi e sarebbe avvenuto lo scontro. A un tratto il tenente Ilieff che correva in testa al manipolo, incespicò e cadde. Il giovane si rialzò in un baleno, tuttavia era pallido. I figli della steppa si fermarono come un sol uomo e si fecero intorno al loro ufficiale.
"-Niente, niente, - disse sorridendo Ilieff.
A pochi passi anche i nemici si erano fermati. Uno di loro visibilmente turbato domandò:
"-S'è fatto male?
"-No, grazie - ripose il tenente Ilieff.
"Dopo, la battaglia riprese tra il fragore delle artiglierie"[10].
L'aneddoto di buona creanza nel contesto bestiale della guerra compare in uno dei più stralunati racconti della letteratura italiana della prima metà del XX secolo, Parliamo tanto di me di Cesare Zavattini (1931). Circa vent'anni dopo Sibilla Aleramo[11] (una scrittrice che oggi gode i favori dei cosiddetti "women studies"), espresse il suo empito ideologico per il paese del comunismo con queste parole:
"Oh paese di Lenin
ove Egli posa e dolce par che respiri
paese di Lenin
cui Egli ha trasmesso genio e tenacia
paese di Lenin
per sempre su giusta e libera strada
[...]
Oh Russia grande
oh paese dei Soviet
Alto paese!"[12].
Negli anni del secondo dopoguerra dalle pagine della narrativa italiana fanno capolino Gogol' e Dostoevskij. Il primo per la penna di Tommaso Landolfi (1944; 1954), che sembra anticipare i gadgets dei sexy-shop:
"La moglie di Nikolaj Vasilevič [Gogol'], è presto detto, non era una donna, né un essere umano purchessia, neppure un essere comunque vivente, animale o pianta (secondo taluno, peraltro, insinuò); essa era semplicemente un fantoccio [...]. Nikolaj Vasilevič gonfiava sua moglie coll'aiuto d'una pompa di sua invenzione, assai simile a quella che si tien ferma coi due piedi e che oggidì vediamo usata in tutte le officine meccaniche, attraverso lo sfintere anale"[13];
il secondo grazie a Guido Piovene, in un romanzo di impianto metafisico del 1970:
"In un primo momento il suo sguardo mi fece pensare a un idiota girovago, di quelli che si trovano nelle campagne e vivono di carità. Pronunciò all'improvviso qualche parola incomprensibile. Io guardai il mio compagno, e il mio compagno guardò me; pensai nuovamente: "Un idiota". Ma l'uomo disse subito in tono civile:
"Mon nom est Fedor Dostoevskij""[14].
Si tratta della apparizione, da un Aldilà che è una sorta di rovesciamento speculare della vita, del grande romanziere russo, che l'Autore usa come una sorta di "citazione dilatata" al punto da entrare nella composizione della sua fabula.
Sullo scadere del XX secolo un romanziere della giovane generazione, Alessandro Barbero (n. 1959), si cimenta nella costruzione -quasi perfetta- di un Romanzo russo[15], nel senso che non è solo d'argomento russo (post-sovietico) ma viene presentato, col vecchio procedimento del "manoscritto ritrovato", come scritto da un russo; e un avvocato-romanziere, Gianni Calloni, si spinge anche più in là, pubblicando una curiosa prosecuzione del Doktor ivago, in cui un'anziana Tonja Gromeko, emigrata in Italia, racconta le sue vicende successive alla conclusione del romanzo di Boris Pasternak, smentendo nei fatti l'asserzione di Mauro Martini che "Il dottor ivago è [...] un romanzo senza conclusione e senza possibile seguito"[16]. Prefazione di Michail Gorbacev[17].
Sono solo alcuni esempi, disseminati nell'arco d'un secolo, d'un fenomeno di ben più vasta portata, il "tema russo" nella letteratura italiana (per il breve scorcio del XXI secolo che stiamo vivendo, in evidente contiguità con l'ultima fase del XX, abbiamo qui con noi Elisabetta Rasy, autrice d'una intensa storia dei Mandel'stam, cui andranno affiancati scrittori come Barbara Alberti[18], Nereo Laroni[19], Lorella Pagnucco Salvemini[20], Paolo Nori[21], e ancora Carlo Sgorlon[22]).
Per il momento mi fermo qui.
Un'indagine del fenomeno, preliminare ad una sua corretta esegesi complessiva, richiede almeno a) una periodizzazione plausibile; e b) una partizione funzionale.
Il XX secolo è stato detto da Eric J. Hobsbawn "il secolo breve", nel senso che i suoi estremi vanno identificati nella Grande guerra (1914-1918) e nell'implosione del sistema sovietico (1989-1991)[23]. All'interno dei (pressappoco) settantacinque anni del "secolo breve", c'è tuttavia la cesura essenziale del secondo Conflitto Mondiale (1939-1945), con tutti gli sconvolgimenti, non solo politico-militari, ma anche culturali nel senso più ampio del termine, che essa ha comportato. Tenuto conto di ciò, e avendo di mira il referente russo, con tutte le approssimazioni del caso si può avanzare la seguente scansione per l'intero secolo XX:
1) La belle époque (1900-1917)
2) L'età dei totalitarismi (1917-1945)
3) La guerra fredda (1945-1989)
4) Il nuovo ordine (o disordine) mondiale (dal 1989-91 in poi).
La belle époque. Come già traspare dai pochi esempi citati, la Russia si presenta nell'immaginario letterario italiano secondo i modelli che s'erano già imposti nel XIX secolo: socio-politici (il nihilismo, la repressione, l'"immenso edifizio, all'esterno europeo, ad all'interno ammobigliato, regolato all'asiatica"[24]), cultural-religioso (la chiesa ortodossa, la Sophia, le sette[25]), e letterarie (naturalismo, estetismo, arte moderna), che in qualche modo proseguono la "moda della Russia" quale s'era diffusa in Europa almeno a partire dal volume di E.-M. de Vogué sul romanzo russo (1886)[26]. E così, accanto a Salgàri, Illica, Pascoli (con il Tolstoj e con il poemetto su Gor'kij, Gli emigranti nella luna[27]) andranno ricordati (almeno) l'Anna Karénina, riduzione del romanzo tolstojano per l'opera lirica di Igino Robbiani (1915), e soprattutto Il tempio della gloria (1906-1913) di Gian Pietro Lucini e Innocenzo Cappa, improntato a una lettura "futurista" di Gor'kij[28].
Nel primo dopoguerra, quando Rivoluzione bolscevica e avvenimenti connessi portarono in primo piano il "tema russo", dando luogo anche a un'imponente pubblicistica[29], il rivolo di testi letterari d'argomento e d'ambientazione russa diviene un ampio fiume. Ricorderò Liuba (1926) di Piero Gadda Conti [1902-1999[30]]; il romanzo su Bakunin di uno dei maggiori scrittori del tempo, Riccardo Bacchelli (Il diavolo a Pontelungo, 1927); i romanzi storici di Paolo Ferrari (Il fuoruscito di Mosca e L'ombra di Pietro il Grande[31], 1929); Lo Zar non è morto, romanzo d'avventure steso (negli anni in cui si favoleggiava della granduchessa Anastasija) da dieci autori guidati dal capo del futurismo, Filippo Tommaso Marinetti (Roma, "Sapientia", 1929[32]). Nell'ambito di questo filone, un ruolo particolare (e spregevole) fu ricoperto da due prodotti di bassa lega e largo consumo che connettevano il "tema russo" con la propaganda anti-ebraica, usando in termini fabulatori i famigerati Protokoly Sionskix Mudrecov: parlo di Russia & Israel. Tra le spire della Sacerdotessa di Maria Magda Sala (apparso a Milano nel 1932 presso una casa editrice minore, le "Edizioni Sbaraglio")[33] e L'esagramma di Lino Cappuccio (apparso dapprima a puntate in fascicoli illustrati, poi raccolto in volume nel 1933 dalle oscure "edizioni Il Successo" di Milano[34]).
Non furono dimenticate né la "tragedia della famiglia imperiale russa" (L'ultimo degli zar, del drammaturgo piemontese Nino Berrini [1934]), né le traversie della prima emigrazione, cui sono dedicati Ex-russi (Milano 1935) di Rinaldo Kufferle[35], e Andrea Lozinski. L'uomo che la morte non volle di Elena Zuccotti Borea (1937); si ebbe altresì una ripresa del tema "dei nihilisti", con I ribelli della steppa nevosa (1938) di Sandro Cassone.
Il periodo tra le due guerre si conclude con un romanzo, Il deserto dei Tartari (1940) di Dino Buzzati[36], la cui "russità" è poco più che nominale ("Drogo domandò: "Perché dei Tartari? C'erano i Tartari?". "Anticamente, credo. Ma più che altro è una leggenda. Nessuno deve essere passato di là, neppure nelle guerre passate""[37]), ma insieme costitutiva del "testo russo": la localizzazione della Fortezza Bastiani non è più marcata di quella del Castello di Franz Kafka (o se si vuole, dell'"Asia" leopardiana del "Pastore errante"[38]), e però l'ossessione dei "tatari" è il risultato della sedimentazione in cultura italiana d'un complesso specificamente russo.
Nel secondo dopoguerra -accanto a Sibilla Aleramo, Tommaso Landolfi, Guido Piovene, - si segnala dapprima il ponderoso romanzo Bùrja di Paolo Zappa, un dignitoso scrittore piemontese di secondo piano, già segnalatosi per i soggetti "esotici" una decina d'anni prima[39], che affronta ora la tragedia della seconda guerra mondiale:
"Qualche lettore -scrive- domanderà se questa storia sia vera. Io rispondo di sì. Solamente, Vera Andrejevna non è esistita. Ma è esistito l'ambiente nel quale la storia si svolge [...] e sono esistite altre donne, le cui vicende mi hanno suggerito quella di Vera Andrejevna. Qualcuna io l'ho incontrata per le strade dell'Ucraina fra l'interminabile catena di profughi che andavano lungo le steppe del nulla, mentre lontano brontolava il cannone"[40].
Alla sciagurata campagna italiana di Russia si riferiscono altresì Il Volga nasce in Europa ([1942] 1951) di Curzio Malaparte, Originalità russa di masse distanze radiocuori di Filippo Tommaso Marinetti ([1944] 1996), Furore in Russia di Franco La Guidara (1963), Siberia '43 di Fidia Gambetti (1983), ma soprattutto il monumento letterario all'odissea degli alpini sul Don, Centomila gavette di ghiaccio (1963) di Giulio Bedeschi[41].
Sempre in relazione ai contatti italo-russi nel turbine della seconda guerra mondiale, un altro episodio ha stimolato la penna degli scrittori, la tragica vicenda dei "cosacchi del Friuli", cioè di quell'armata al comando dal generale Petr Krasnov[42] che, illuso di poter ottenere dai tedeschi una Kosakenland nell'Italia del nord-est, combatté la Resistenza a fianco dei nazi-fascisti[43], riversando l'odio anti-bolscevico sui partigiani: ricordo il racconto Illazioni su una sciabola (1984) di Claudio Magris e il romanzo L'armata dei fiumi perduti (1985) di Carlo Sgorlon.
Il "tema russo" fu toccato in chiave satirica da Giovanni Guareschi, giornalista qualunquista[44] e scrittore dozzinale, che ne Il compagno Don Camillo (1963) prende a pretesto un viaggio di comunisti italiani in Russia ai tempi di Chručev per crogiolarsi nei luoghi comuni antisovietici del tempo (mancano però le battute migliori, di "radio Erevan", che sarebbero state tradotte in italiano solo anni dopo[45]). Un caso molto singolare è invece il romanzo "russo" (1972) di Pietro A. Zveteremich, di cui si dirà in seguito. Sarà qui invece il caso di ricordare, come interventi letterari di marcato impegno politico, La morte segreta di Josif Giugasvili (1976) di Giorgio De Maria, e Chi ha ucciso Majakovskij? (1977) di Franco Berardi. Ambientato in epoca brezneviana è invece il "giallo-verità" Natascia Rysakova (1977) del giornalista Renato Loffredo, che racconta "una delle storie, diciamo "parallele", vissute ai margini della [sua] vita professionale" affrontando tangenzialmente "la sua complessa implicazione politica". Al genere della ricostruzione documentaria nutrita di una scrittura intensa e creativa appartiene La fuga di Tolstoj (1986) d'un giornalista ben più noto, Alberto Cavallari, che s'inscrive nella tradizione di testi letterari su grandi autori russi, come già nel XIX secolo la tragedia su Puschin (1870) di Pietro Cossa[46].
Nell'ultimo decennio del XX secolo appare il romanzo "russo" di Vittoria Ronchey, autrice vent'anni prima di un best-seller di costume[47], e che adesso (La fontana di Bachcisaray, 1995) fa coincidere, nella storia d'una attempata docente universitaria di slavistica che ritorna in Russia dopo trent'anni, la crisi esistenziale della protagonista con la crisi della Russia post-sovietica. Viene anche ripreso il filone della spy-story connessa con gli avvenimenti politici in corso, che riemerge con La russa del giornalista Marco Nese (1992); ma appaiono anche Murzikhàn di Pia Pera[48], storia di un gatto in cui si reincarna nientemeno che Evgenij Onegin, gli schizzi "di viaggio" raccolti da Aldo Buzzi col titolo Čechov a Sondrio (1994), la cui dominante è il rimando alla letteratura e alla cultura russa. Espressamente connesso con la storia civile e politica contemporanea è invece il romanzo di Marcello Venturi sulla sorte di Julija Dobrovol'skaja (Via Gorkij 8 interno 106, 1996); tutto vòlto a una dolente ricostruzione degli anni più duri dello stalinismo è invece il ponderoso romanzo (2000 pagine!) I fantasmi di Mosca (1993) del noto pubblicista d'origine dalmata Enzo Bettiza[49]: "l'Hotel Lux -dice il risvolto di copertina- è il palcoscenico su cui leader politici, agenti segreti, inquisitori, killer, spie di tutta Europa recitano la tragedia del secolo", che viene ricostruita in una silloge degli avvenimenti tra gli anni 1936 e 1941 offerta in prima persona da un narratore preso nell'ingranaggio della repressione staliniana:
"Confesso e ammetto, in tutta franchezza, il giudice inquirente ne prenda nota, di non nutrire più alcuna illusione sul futuro che già incombe, tremendo e solenne, sopra di noi",
inizia a dire l'inquisito, che conclude:
"Ormai non ho altro da augurarmi che questo: mi assistano la guerra e la Russia antica e generosa che la guerra fa riemergere nel dolore da sotto la crosta della Rivoluzione".
E il "testo russo" continua a comporsi e crescere con i romanzi già ricordati di Alessandro Barbero e di Gianni Calloni, e con quello -di cui si dirà- di Igor Sibaldi.
Affrontata la catalogazione tipologica di questo ricco materiale letterario, implica la questione degli statuti dei generi della "letteratura" (con particolare riferimento alla chudozestvennaja literatura), e delle interferenze tra di loro. Schematizzando, e pur nella convinzione che la "letteratura" sia un sistema fortemente centripeto, metteremo intanto da parte i testi in italiano di autori d'origine russa, che ben potrebbero essere considerati come parti della letteratura russa dell'emigrazione (tanto per fare dei nomi, le poesie di Raissa Olkienizkaja[50], i racconti di Maria Karklina-Rakovskaja[51] e di Leone Kossovich[52], o la pièce teatrale su Mejerchol'd di Giorgio Kraiskij[53]).
Più articolato (ma sempre da tener distinto dalla "letteratura creativa", anche se talora i confini sono labili) sono il settore della "pubblicistica" e della produzione propriamente scientifica, anche quella dovuta a russi trasferiti in Italia: la quale influisce spesso sulla "creazione letteraria", ma talora ne viene anche condizionata, magari con l'apporto di ideologemi tratti direttamente dal dibattito politico. Si ha a che fare con un sistema di sottoinsiemi estremamente complesso (e spesso ambiguo), nel quale emerge la memorialistica, per lo più connessa con la letteratura di viaggio.
Il "genere" è dei più remoti, già ampiamente documentato fin nel XVI secolo e rinverdito nel XVIII da testi come le Lettere dalla Moscovia di Francesco Locatelli Lanzi (1733-34) o i Viaggi di Russia di Francesco Algarotti (1739-1751), celebri tra l'altro per l'immagine di "Pietroburgo, finestra sull'Europa"; tra i "viaggi di Russia" a firma di scrittori italiani più significativi del secolo scorso, vanno ricordati (oltre a quelli di cui s'è già detto, di Curzio Malaparte e di F. T. Marinetti), almeno quelli di Vincenzo Cardarelli[54], di Corrado Alvaro (1935[55]), e, dopo quelli della propaganda filo-sovietica nell'immediato dopoguerra[56], i viaggi di Alberto Moravia (1958[57]), di Giuseppe Bartolucci (1959[58]), fino a quello di Gina Lagorio (1989[59]). Avvenne in Russia (1975-1982) di Federico Sensi è un "taccuino letterario" della sua permanenza come ambasciatore a Mosca.
Non è detto che ciascuno d'essi non sia contaminato con gli altri due, né che la contaminazione non tocchi anche (in certi casi) la "letteratura d'invenzione"; sarebbe da analizzare nella lettura d'ogni singolo testo, e qui terremo ferma la distinzione per meglio fermarci sulla letteratura propriamente "artistica".
Nella quale distinguerei le narrazioni "d'argomento" russo, o con riferimento narrativo alla Russia, da quelle presentate come "narrazioni russe", quale ad esempio il romanzo ricordato di Barbero, e da quelle "date per russe".
Un caso singolare e pressoché unico dell'ultimo "tipo" è il romanzo falsamente russo, e letterariamente pregevole[60], di Pietro Zveteremich Le notti di Mosca[61] (che, forse casualmente, riprende il titolo del volume "di viaggio" di Bartolucci). Apparso nel 1971 col titolo Spi spokojno, dorogoj tovarisc[62], a firma d'un tal Vlas Tenin non altrimenti noto, suscitò all'epoca un vespaio politico e un "caso" letterario: si presentava infatti come il primo romanzo "pornopolitico" che usciva dal crogiolo del dissenso sovietico, aprendo la caccia alla vera identità dell'autore e riscuotendo la non piccola gratificazione d'un attacco da parte dell'Agenzia Novosti[63] e della "Literaturnaja Gazeta"[64]. L'aspetto intrigante sta nel fatto che il romanzo pseudo-russo di Zveteremich veniva a colmare quella che in Occidente era sentita come una carenza del samizdat, l'impiego nella satira politica della tematica erotica (che tuttavia, come si sarebbe visto anni dopo, non mancava nel "sottosuolo" sovietico): esattamente come più di duecento anni prima l'abate Pietro Chiari con La bella pellegrina, ossia Memorie d'una dama moscovita (1759) aveva dato quel romanzo d'avventure galanti, diffuso per tutta Europa, che mancava ancora d'una incarnazione "russa" (la si sarebbe avuta solo un decennio più tardi, con Prigozaja povaricha -1770[65]- di Michail Čulkov). Qualcosa del genere (il "romanzo russo che non ancora scritto in Russia") l'ha tentata vent'anni dopo con La congiura Igor Sibaldi, anch'egli traduttore dal russo, che ha inteso scrivere "il romanzo degli anni di El'tsin e di Gorbaciov che i russi non hanno saputo ancora scrivere"[66]; non poteva naturalmente sospettare che un'autrice russa di successo, Aleksandra Marinina, stesse scrivendo quasi contemporaneamente (1997) un romanzo con ingredienti molto simili al suo, una congiura politica ordita con l'impiego di doti paranormali: Ne mesajte palacu[67].
* * *
I criteri dell'indagine qui appena abbozzata, sono gli stessi per gran parte elaborati nello studio di quello che un tempo si chiamava il "mito" di Pietroburgo[68], e che gli studi semiologici russi indicano oggi come il "testo pietroburghese"; e sono gli stessi che hanno nutrito il fenomeno simmetrico e inverso, cioè lo studio del "testo italiano" nella cultura russa[69]. Assieme all'autrice della più recente rassegna in proposito, li riassumerò in due indicazioni; la prima è di Ju. Lotman: "la proiezione di determinate aspettative sull'altro e l'interiorizzazione dell'altro che ha come conseguenza la costruzione di una propria immagine dello stesso"; e l'altra di Vladimir Toporov[70]: "la traduzione di una determinata realtà in categorie letterarie conduce alla creazione di un testo che deve presentarsi come un insieme semanticamente coerente"[71].
Accade così che Carlo E. Gadda investa di connotati russi perfino un paesaggio urbano italiano (nella fattispecie, milanese): "presso il nuovo politecnico, alla Città degli Studi, sorge un edificio alquanto teatrale, pizzuto e dolomitico, ma soprattutto assai sciocco, popolarmente chiamato il Kremlino"[72].
In questo senso e in conclusione, vorrei avanzare una riflessione tangenziale al tema, ma che ne rappresenta una ricaduta emblematica su piano della cultura popolare. Renato Poggioli ricordava il partigiano italiano che, nel duro inverno '44-'45 della lotta antifascista, si ripeteva a memoria una strofa di Esenin; e assieme va ricordato l'avvio della canzone eponima della Resistenza italiana ("Fischia il vento, urla la bufera, / scarpe rotte eppur bisogna andar...") la cui melodia è quella d'una canzone russa ("Rascvetali jabloni i grui..."[73]), e il cui testo è ricalcato su un passo dei Dodici di Aleksandr Blok: "Guljaet veter, porxaet sneg. / Idut dvenadcat' celovek".
Mi pare significativo che "l'interiorizzazione dell'altro" di cui parlava Lotman si sia trasposto dalla vita alla letteratura, per poi tornare dalla letteratura alla vita; certo, è più arduo coglierne oggigiorno un senso condiviso, quando alcuni di coloro contro cui si battevano i partigiani che citavano Esenin e cantavano Blok, siedono nel Governo della nostra repubblica.
Notes:
© Cesare G. De Michelis
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