Vivia Benini
"Stupiscimi!", Léonide Massine, ballerino, coreografo e collezionista al Teatro Costanzi di Roma fra il 1914 e il 1917"
"Il contatto visivo fra pubblico e ballerini sul palco avveniva a 180°. Questo tipo di contatto occhi negli occhi distruggeva l'illusione scenica. Lo studio dei quadri mi ha permesso di acquisire il concetto di costruzione mettendo la scena al centro dell'attenzione. Studiando i differenti pittori era possibile capire meglio come usavano gli angoli, la prospettiva e come manipolavano il palcoscenico per sviluppare il soggetto. Nella pittura lo spazio viene utilizzato nella sua interezza. I quadri indicavano anche come si potesse realisticamente e armoniosamente concepire la composizione di una scena. Servivano anche da guida al comportamento umano per poter creare un personaggio nei suoi gesti idiosincratici e nelle interazioni con altri personaggi" (1), cosi in un'intervista del 1978, a un anno dalla morte, Leonid F. Mjasin (2), ballerino e coreografo di molte stagioni dei Ballets Russes, raccontava a proposito dei suoi primi intensi contatti diretti con la pittura e in particolare con la pittura italiana .
Era il 1914 e, per la prima volta Mjasin, appena diciottenne, era in viaggio in Italia con il suo mentore Sergej Djagilev ( 1872-1928), il celebre patron dei Ballets Russes, conosciuto meno di un anno prima dopo un Lago dei cigni al Bol'šoj, nel quale il giovanissimo Mjasin danzava la tarantella dell'ultimo atto.
Da quell'incontro dell'inverno 1913 all'Hotel Metropol', dove Djagilev alloggiava quando arrivava a Mosca, il "gitano", cosi i compagni della classe di danza della Scuola Imperiale di Teatro di Mosca dove Mjasin si era brillantemente diplomato nel 1912 lo chiamavano, per i suoi capelli nerissimi, la pelle olivastra e gli occhi penetranti, aveva cambiato la sua vita. Aveva accettato l'offerta che Djagilev gli aveva fatto per il ruolo principale in uno degli spettacoli che stava preparando per la successiva tournée europea . Aveva lasciato i suoi 600 rubli annui e il posto nel corpo di ballo del Bol'šoj e si era immerso nell'avventura dell'occidente, del mondo svafillante dei Grand Hotel nelle capitali europee, dei celebri teatri, delle prime tumultuose, del pubblico assetato e scandalizzato da quella sorta di esotismo barbarico che gli spettacoli della prima fase dei Ballets Russes avevano offerto alle platee parigine.
Le teorie, che Djagilev gli aveva esposto fin dai loro primi incontri, sulla necessaria fusione di tutte le arti, "musica, danza pittura, poesia e teatro" (3) per la formazione di una nuova arte che avrebbe portato quindi anche a una totale rivoluzione nel concetto di balletto classico, lo avevano catturato.
Il giovane Mjasin avrebbe intrapreso una strada non lineare, né sgombra di ostacoli, nell'inserimento in una compagnia di personaggi difficili e straordinari, rigidamente gerarchica sotto il tallone di ferro di un uomo geniale e terribilmente possessivo come Djagilev del quale, va detto, Mjasin diventò amante, pur essendo anche eterosessuale, come la sua vita dimostrerà dal momento che ebbe varie mogli, quattro figli e numerose relazioni,
La rottura fra Djagilev e il predecessore di Mjasin nella compagnia, il mitico V.Nižinskij, era avvenuta proprio per il matrimonio di quest'ultimo. Dunque il posto che Mjasin andava ad occupare non era comodo, né semplice da conquistare.
La legende de Joseph fu la sua prima prova da "primo ballerino". Il balletto riuniva artisti di diversi paesi di quell'Europa che entro pochi mesi si sarebbe gettata nella tragedia della I° guerra mondiale, capaci di lavorare insieme sotto l'autorevole, magnetica personalità di Djagilev. H. Von Hoffmanstal per il libretto, R. Strauss per la musica, L. Bakst per i costumi di broccato e velluto che dovevano, insieme alle scene di J. M. Sert, essere ispirati alla sontuosa pittura veneta rinascimentale di Veronese e Tintoretto.
Mjasin-Giuseppe del racconto biblico venne vestito con una tunica corta disegnata per lui appositamente da A. Benois (4), che doveva sottolineare "l'innocenza giovanile e la vulnerabilità" (5) del personaggio, talmente succinta che, dopo la prima all'Operà di Parigi il 15 maggio 1914, la stampa intitolò il balletto Les jambes de Joseph. Furono comunque sottolineate le capacità di mimo e drammatizzazione che il giovanissimo danzatore mostrò di possedere e quel suo particolare talento di interprete che lo aveva lasciato a lungo indeciso su quale carriera seguire, attore o danzatore. A Mosca, Mjasin aveva partecipato con ruoli minori a varie messe in scena al Malyj Teatr e aveva preso contatti con il Teatro d'Arte di Stanislavskij.
Parigi e poi Londra, per le repliche dello spettacolo. Tappe che avevano voluto dire per il giovane protegée di Djagilev, oltre al confronto con l'esigente pubblico europeo, anche la scoperta di musei dove quella pittura italiana, che ancora rappresentava per lui un concetto alquanto vago, cominciava ad assumere l'aspetto dei capolavori di Giotto, di Paolo Uccello, di Mantegna. Iniziò a vedere dal vivo quello che il suo maestro di disegno di Mosca, A. P. Bolčakov, gli aveva mostrato fra il 1912 e il 1913, con sbiadite riproduzioni color seppia delle chiese italiane, dei quadri e degli affreschi in esse contenuti dei maestri del rinascimento. Non solo pittura italiana, come ricorda ancora Mjasin dei suoi primi approcci con un arte che di li a pochissimi anni sarebbe stata strettamente collegata alle sperimentazioni nel campo del teatro, della scenografia e della coreografia. Bolčakov aveva mostrato al suo allievo danzatore i quadri di Degas, dai quali Mjasin racconta di essere stato fortemente "intrigato per le curiose angolazioni, prospettive e posizioni nello spazio delle ballerine "(6) e i manifesti di Toulouse Lautrec che lo avevano impressionato per le "grottesche caratterizzazioni"(7) dei personaggi ritratti o ancora i colori di Van Gogh o di Gaugin. Ricordiamo che in quegli anni le gallerie private dei grandi collezionisti moscoviti di arte occidentale, S. Ščukin e I. Morozov, erano aperte al pubblico. Non risulta dalle sue memorie, che Mjasin abbia visitato le case dei collezionisti ma è probabile che ne avesse sentito parlare nell'ambiente artistico dell'antica capitale.
Il vero apprendistato culturale di Mjasin avrà luogo in quella prima vacanza in Italia che inizia ad agosto del 1914, mentre l'Europa s'incendia allo scoppio della prima guerra mondiale. Milano, Viareggio, allora il posto di villeggiatura più esclusivo dell'alta società nostrana, dove il danzatore avrà a disposizione un maestro di ballo d'eccezione e in più italiano, il celebre Enrico Cecchetti (1850-1928), che aveva avuto fra i suoi allievi anche A. Pavlova e V. Nižinskij. Dalla Versilia i russi visitano Pisa, Lucca, Pistoia, Ravenna dove i mosaici di Sant'Apollinare lo colpiscono per l'intensità cromatica ed espressiva " ciò che dava a quei mosaici un potere ipnotico era la figura di Cristo, presentato come un uomo giovane, con una tunica rossa e le mani tese a ricevere i pani e i pesci. La sua penetrante espressione di compassione stregò la mia immaginazione..."(8) Poi Firenze e infine Roma, a Novembre, dove i russi scendono al lussuoso Grand Hotel. Quella che doveva essere una vacanza si prolunga a causa della terribile situazione internazionale che disperde e separa la cosmopolita compagnia. Per Mjasin, il soggiorno romano diventa occasione per un più approfondito apprendistato artistico.
"Un pomeriggio agli Uffizi mentre stavo guardando la Madonna con bambino di Filippo Lippi, Djagilev mi chiese "Pensi di poter comporre un balletto? "No" risposi senza pensare " Sono sicuro che non potrei, mai". Poi, quando siamo entrati in un'altra sala, venni subito catturato dai colori luminosi di un' Annunciazione di Simone Martini. Mentre osservavo le delicate posture dell'arcangelo Gabriele e della Vergine, sentii che tutto quello che avevo visto a Firenze fino a quel momento culminava in quel quadro. Sembrava che mi offrisse la chiave di un mondo sconosciuto che mi chiamava lungo una strada che sapevo di dover percorrere fino in fondo. "Si" dissi a Djagilev "Penso di poter creare un balletto. Anzi non soltanto uno, ma cento, te lo prometto"(9).
Una sorta di "folgorazione sulla via di Damasco" documentata nelle memorie di Mjasin, legata a un'idea religiosa dell'ispirazione creativa, al misticismo idealizzato dei ricordi infantili sulle visite ai monasteri di campagna con le visioni delle sacre icone e delle reliquie, che diventerà il punto di partenza per concepire, nei successivi mesi romani, la sua prima coreografia per Liturgie, scene dalla vita di Cristo incentrate sulla Passione. Lo testimonia una lettera(10) di Djagilev a Stravinskij, interpellato per le musiche, in cui il patron menziona ben 32 sessioni di prova per la coreografia del balletto avvenute a Roma, suggerendo al musicista una partitura sonora a sostegno della danza, secondo le contemporanee tendenze di musica futurista. Nel 1915, in Svizzera, a villa Bellerive, vicino a Losanna, la compagnia con nuovi e vecchi membri tornerà a riunirsi intorno al progetto di Liturgie. N.Gončarova verrà chiamata per le scene e i costumi e, insieme a M. Larionov, diventerà in breve tempo uno dei principali punti di riferimento artistici del giovane danzatore. L'arte bizantina delle antiche icone troverà nei bozzetti della pittrice quella fissità ieratica, coniugata ad un'ostinata e vivace vocazione innovatrice nelle forme, che anche Mjasin voleva imporre ai suoi movimenti coreografici sotto la suggestione della pittura italiana del 1200. Liturgie, non vedrà mai la luce definitiva e resterà a livello di progetto.
Ma il primo soggiorno romano serve a Mjasin e Djagilev soprattutto per immergersi nella temperie mondana e culturale della capitale che forse, confrontata alla bohème parigina faceva, come dirà un anno dopo J. Cocteau parlando dei futuristi romani incontrati al Caffè Greco, "très province" (11).
Nel febbraio arriva a Roma anche Stravinskij, invitato, come già ricordato, per lavorare a Liturgie. In suo onore Djagilev, sempre alla ricerca dell'evento e soprattutto, come dicevano le malelingue, dei soldi per finanziarlo, organizza serate musicali nelle quali si esibiscono Stravinskij stesso e il compositore A. Casella in versioni per pianoforte di Le sacre du Printemps (12) e Petruška (13), di fronte a tutta la cròme intellettuale cittadina. In marzo arriverà anche S. Prokof'ev per un recital all'Auditorium di Santa Cecilia.
Nei teatri romani i russi assistono a molte serate futuriste che spesso si risolvono in scandali ma, contemporaneamente, sono la messa in pratica delle idee estetiche sul lavoro teatrale esposte nei manifesti che escono in quegli anni le cui parole chiave, "luce, dinamismo, colore, astrazione, velocità", si rivelano musica per gli orecchi dei russi, orecchi ben allenati del resto ai coevi esperimenti futuristi e cubofuturisti in Russia, nonostante tutte le diatribe e le rivalità sul primato per il nome. Nel maggio del 1914 alla Galleria Sprovieri, si apre la Libera Esposizione Internazionale Futurista cui partecipano artisti russi del cubofuturismo come A. Ekster, O. Rozanova e altri. Mjasin e Djagilev sono già partiti per la Svizzera, ma conoscono bene ormai la galleria e hanno preso molti contatti per future collaborazioni.
L'episodio centrale di questa prima permanenza di Djagilev e Mjasin in Italia è la visita, ai primi di aprile, a Milano, nella casa di Corso Venezia di Marinetti. L'incontro, più volte citato dagli studiosi del futurismo, testimonia dell'entusiasmo manifestato dai russi nei confronti dello strumento inventato da L. Russolo, l'intonarumori, che Djagilev voleva assolutamente portare a Parigi. Testimoni, nel salotto arredato all'orientale del vate dei futuristi italiani, oltre a Russolo stesso e al padrone di casa, anche Boccioni, Carrà, Pratella e Cangiullo del quale resta, nelle memorie, questa descrizione in tono "futurista" . " ...otto o nove intonarumori erano allineati simili a mansueti quadrupedi in attesa di un cenno del domatore il quale nervoso aspettava il silenzio della conversazione. Questa tacque e fu allora che Russolo girò la manovella magica. Un crepitatore crepitò con mille scintille, come focoso torrente.."(14) Un "eccezionale pianista slavo", che era poi Stravinskij e che era arrivato appositamente per richiesta di Djagilev a prendere ispirazione per Liturgie, "schizzò emettendo un sibilo di gioia, scattò dal divano da cui sembrò scattasse una molla.. in quella un frusciatore frusciò come gonne di seta d'inverno, come foglie novelle d'aprile, come mare squarciato d'estate. Il compositore frenetico si avventò sul piano per cercare di trovare quell'onomatopeico suono prodigioso, ma invano provò tutti i semitoni con le dita avide. Mentre il ballerino ( che era chiaramente Mjasin n.d.r.) muoveva le gambe del mestiere, Djagilev emise un ah,ah, come quello di una quaglia spaventata. Muovendo le gambe in quel modo il ballerino cercava di dimostrare che quella strana sinfonia era in effetti ballabile mentre Marinetti , più felice che mai, ordinava thè, pasticcini e liquori. Boccioni sussurrò a Carrà che gli ospiti erano assolutamente conquistati..."(15)
Il Mjasin che ci rimandano le testimonianze in questo primo soggiorno romano e italiano, cui va aggiunto per dovere di cronaca anche la visita di dieci giorni a Napoli e a Palermo, è ancora un giovane, se pur raffinato e appassionato, all'ombra del suo più celebre mentore. Di quanto la passione e il talento di Mjasin si siano evoluti rapidamente in raffinata capacità di elaborare culturalmente stilemi e motivi della tradizione russa con le istanze delle avanguardie lo si vedrà ben presto.
Il Mjasin che torna a Roma alla fine di settembre del 1916 è più sicuro di sé dopo due tournèes, la prima in America, durante la quale Djagilev deciderà di cambiare Leonid Mjasin nel più facile e soprattutto più francese Léonide Massine, e la seconda in Spagna, luogo anch'esso carico di suggestioni estetiche e culturali per il giovane coreografo, sensibile evidentemente all'humus mediterraneo. Un Massine più adulto, anche se con il nome cambiato, più autonomo, anche se conscio dell'ancora necessaria dipendenza da Djagilev e, soprattutto, già gratificato dal successo individuale per le sue prime coreografie. La crisi con il patron scoppierà, come era già successo per Nižinskij, per motivi di gelosia e possessività. Massine aveva conosciuto nel suo precedente soggiorno romano l'affascinante moglie di un diplomatico russo che lavorava a Roma all'ambasciata, madame Chovošinskaja, colta e raffinata amica di Stravinskij, nel cui salotto Massine aveva incontrato Rodin. Prima in Svizzera e poi in Spagna, la bella Chovošinskaja era riapparsa e alla fine aveva messo il furioso Djagilev ancora una volta "a confronto con il fatto di essersi preso come amante un ragazzo incerto sui propri orientamenti sessuali ..." (16).
I luoghi consueti del nuovo soggiorno romano sono tutti situati intorno all'odierna Via del Corso, Via del Parlamento, dove Djagilev e Massine affittano un appartamento con il pianoforte, che diventerà per tutto l'inverno il quartier generale d'incontri, prove e baruffe sentimentali, il celebre Caffè Aragno sul Corso, intorno ai cui tavolini s'incontravano, discutevano e si litigavano tutti gli intellettuali e artisti romani e non, il piccolo teatro Metastasio dove ogni giorno Massine studia con l'onnipresente Cecchetti, la cantina Taglioni a Piazza Venezia affittata per le prove e infine il Teatro Costanzi, dove la Compagnia debutterà con due serate nell'aprile del 1917.
Djagilev infatti aveva combinato una stagione invernale a Roma . Non era la prima volta che i Ballets Russes arrivavano al Costanzi ma basta la definizione che, della prima tournée del 1911, dette un sapiente critico nostrano sulle cronache , definendo Cleopatre, coreografia di Fokin e scene di Bakst, andato in scena il 27 maggio 1911, un "defilé asiatico-africano" per far capire la reazione generale di pubblico e critica. Il Corriere d'Italia dell' 11-4-1917 racconterà invece a firma A. B.: "Quando nel 1911 venne per la prima volta a Roma la compagnia dei Balli Russi, la sala del Costanzi era quasi vuota. Il pubblico, disattento e diffidente, rise della nuova arte e disapprovò, il comitato organizzatore ci rimise oltre 100.000 lire...". Ben diversa l'accoglienza riservata da intellettuali e mondani della capitale agli spettacoli del 1917: sale stracolme, pubblico attento, consapevolezza di stare assistendo a qualcosa di estremamente nuovo. Certamente l'eco degli scandali parigini alla prima di Sacre di Printemps del 1913 avevano varcato le Alpi e creato un clima di intrigante attesa.
La città eterna, delle visioni della classicità per eccellenza, sarà per i russi il luogo della grande libertà interiore, con diverse direzioni di lavoro che Djagilev, con la sua infaticabile e inesausta capacità di stare contemporaneamente su più fronti, saprà gestire nonostante le difficoltà crescenti nei rapporti privati con Massine. Quest'ultimo sarà l'artefice delle coreografie inedite di questa nuova stagione e in quasi tutti gli spettacoli anche danzatore.
Djagilev, come sempre, è sapiente regista nel dosare tradizione e provocazione per il programma delle serate.
Il 9 aprile 1917 vanno in scena, prima due capolavori del repertorio legato alla prima fase dei Ballets Russes: Les Sylphides (17) e L'oiseaux de feu (18) , nel quale Massine è il principe Ivan. Nella seconda parte della serata, ecco due balletti che sono le prime prove coreografiche del giovane Massine, nelle quali appare già chiara la virata che la nuova arte aveva fatto rispetto alla tradizione: Las Meninas (19) una sorta di animazione raggelata del celebre quadro di Velazquez alla cui realizzazione delle scene partecipà un italiano, pittore della scuola romana, Carlo Socrate, frequentatore assiduo del Caffò Aragno, che diventerà amico di Picasso e andrà con lui a Parigi e in Spagna, e al quale Roberto Longhi dedicherà nel 1926 una monografia. Il realismo magico delle tenui scene azzurrine di Socrate , non un interno come nell'opera di Velazquez, ma un giardino con un balcone sovrastante, ospita pochi personaggi: due dame in "iperbolici guardinfanti" (una delle due era la bella O. Kochlova, futura moglie di Picasso), i loro corteggiatori che "garbatamente volteggiano" mentre una nana, vestita di rosso e verde, attraversa la scena in diagonale con quasi impercettibili soste. "Argomento: nulla. Significato, grandissimo. Un episodio della vita aristocratica spagnola del '600, vita di galanteria manierata e di etichetta inflessibile, ci passa davanti agli occhi e si ferma per sempre nella memoria nostra. Le dame nella loro ridicola e superba acconciatura , la nana con il suo strano e quasi sinistro folleggiare, i cicisbei con le loro mosse languide e feline, sembrano al tempo stesso creature di vita e di sogno" (20). La cronaca attenta e sensibile del critico teatrale registra anche la stupita diffidenza del pubblico, effettivamente perplesso di fronte alla Spagna malinconica e caricaturale di Massine, che nelle sue memorie, spiegherà cosi il proprio lavoro: " Il mio non era un tentativo di ricreare la grandeur dell'età d'oro spagnola. La mia era soltanto un'interpretazione personale dell'etichetta della corte spagnola e il sottolineare la tristezza che avevo catturato nei quadri di Velazquez e in molti pittori del seicento spagnolo, controbilanciando con movimenti fluidi che si amalgamavano con le note malinconiche della musica evocativa di Fauré".(21)
Ben diverso e più vicino all'idea che il pubblico romano aveva dei rutilanti Ballets Russes, sarà l'altro balletto, in realtà la sua prima vera prova di coreografia, preparato nel soggiorno svizzero sotto la supervisione di Larionov che aveva firmato anche le scene : Soleil de Nuit (22), era una ricerca alle origini delle danze rituali contadine con una iper-caratterizzazione degli archetipi decorativi dell'arte e dei costumi popolari, enormi kokošniki e ingombranti sarafany, che avevano già creato non pochi problemi per la Prima avvenuta in Svizzera nel '15 . A. Casco, scrive il giorno seguente la Prima romana: "Sotto la futuristica cornice di soli vermigli, occhieggianti con brutale malizia, il rosso e l'oro dei costumi proiettati violentemente sullo sfondo di un cupo azzurro, raggiungono un'intensità cromatica splendida. E la folla si agita turbinosa, i buffoni saltano fra le popolane vestite a festa, un pazzo dà in smanie orgiastiche. E di nuovo si rivela a noi quel mondo barbarico e fascinoso che gli arcieri e le circasse del principe Igor ci hanno fatto conoscere. La coreografia di L'oiseau de feu confrontata con quella del Soleil de nuit, sembra decrepita. Il Larionov ha dimostrato come la nuova arte teatrale russa possa largamente avvantaggiarsi di certe scoperte degli impressionisti ribelli e dei battaglieri futuristi, Picasso, Balla, Depero, quando per la compagnia dei Balli Russi potranno utilizzare prodigiosamente le risorse del proprio ingegno. E noi attendiamo con fede il successo di questi valorosi" (23). Casco coglie dunque, pur con prospettiva ravvicinata e con una spiccata autoreferenzialità, la virata che il team Larionov-Massine mette in atto con l'apertura alle correnti artistiche che il critico individua come esclusivamente occidentali. Sembra però tralasciare quanto avvenuto in Russia a cavallo degli anni dieci del '900 con il fiorire quasi parallelo di neoprimitivismo e futurismo e soprattutto ignora quell'evento che già nel 1913, - aveva costituito uno spartiacque , anticipando molte istanze dell'arte figurativa e teatrale delle quali Larionov era stato attivamente partecipe. Si tratta, come è noto, dell'andata in scena a Pietroburgo di La vittoria sul sole (24), alla cui realizzazione avevano partecipato i nomi più noti delle avanguardie artistiche russe di quegli anni.
Più e legata ai motivi intrinseci della tradizione e della cultura russe è invece il racconto di Massine per lo spettacolo: "Per le danze attinsi ai miei ricordi infantili del chovorod e delle litanie popolari che Larionov mi aiutò ad abbellire con gesti primitivi e terragni. Per la prima volta arrivai a capire la vera natura di queste antiche danze rituali contadine e fu grazie a Larionov... Aveva disegnato per me, che interpretavo il sole di mezzanotte, un costume scintillante e sontuoso con un fantastico copricapo fatto di soli scarlatti che
sembravano ardere contro il blu del cielo di mezzanotte. Alle mani avevo attaccato con degli elastici altri due soli grandi più o meno come un piatto, con i bordi tutti frastagliati e dipinti di rosso. Nella danza li muovevo con rapidi ritmi alternati a destra e a sinistra sopra la testa e in basso all'altezza delle ginocchia in modo da dare l' illusione della rotazione solare" (25). La ricerca di nuove forme espressive attraverso la rielaborazione di motivi del folclore russo sarà in questi mesi romani motivo di un nuovo progetto per il pittore raggista Larionov e per N. Gončarova che verranno a Roma fin dall'ottobre del 1916. La coppia alloggerà all'Hotel Minerva e affitterà uno studio in Via Principessa Clotilde per realizzare le scene di Les Contes Russes (26), un insieme in tre episodi di leggende musicate da Ljadov sui temi delle fiabe popolari russe. (Kikimora (27) era già stato montato per la tournée spagnola del 1916, (Bora Korolevič e Baba Jaga verranno preparati a Roma e andranno in scena a Parigi l'anno successivo.) Sulla terrazza dello studio viene fotografata la Gončarova che tien in mano una maschera realizzata da Larionov per un personaggio del balletto. Maschere stilizzate dunque sul volto dei personaggi che vengono anche dipinti con segni raggisti di tonalità accese al fine di rendere più astratta e artificiale la loro espressione. Ricordiamo che Larionov aveva già usato per le sue performance moscovite del 1913 e il progetto del teatro futurista del 1914 l'artificio di dipingersi il volto con geroglifici astratti. Movimenti stilizzati e geometrici anche per una coreografia che di nuovo si appoggia al passato per inventare forme nuove. Il cosiddetto "modernismo etnico" (28) delle coreografie di Massine acquista forma nitida ed eleganza grazie proprio alla stretta collaborazione con Larionov che, a sua volta, aveva coniugato nelle sue precedenti ricerche pittoriche pittura colta e pittura popolare. "Fauvismo e arte delle insegne, cézannismo e lubok, raggismo e pittura tribale del viso" trovano nel rapporto con il teatro e la coreografia e nella stretta collaborazione con Djagilev e Massine la possibilità di rinnovare una dimensione di arte totale. Viceversa per Djagilev la sinergia con i due rappresentanti dell'avanguardia russa rappresentava la possibilità di continuare a coniugare gusto del pubblico per l'esotismo che arrivava dalla Russia e nuove tendenze artistiche.
Contemporaneamente al lavoro sui racconti russi, avviene l'incontro con i pittori futuristi italiani che per Larionov sarà ricco di stimoli e importante al punto da sconfinare in una storia di plagio, presunto da alcuni e assicurato da altri (29), da parte sua nei confronti di Fortunato Depero. Certamente la frequentazione reciproca ci fu e fu molto intensa in quei mesi. L'interesse per il futurismo italiano già esplorato dal patron nel precedente soggiorno (30), questa volta si concreta in una collaborazione reale, cosa che non era avvenuto la volta precedente. Gli eventi, che confermano questa collaborazione nel campo dell'attività teatrale e coreografica, sono sostanzialmente due, mentre un terzo testimonia dell'interesse specifico che proprio Massine nutriva per la pittura contemporanea e della sua natura di "intellettuale della danza"(31), come ò stato sottolineato da più parti, in grado di affrontare qualsiasi impegno compositivo, (32) legato e illuminato dalle scoperte relative a luce, movimento e ritmo.
Partiamo da quest'ultimo: il 7 aprile, in occasione delle due serate programmate per il 9 e il 12 dedicate ai Ballets Russes s'inaugura nel foyer del teatro Costanzi una mostra di un piccola collezione privata di proprietà dello stesso Massine. Le opere erano state acquistate o a lui donate in quegli anni, fra il 1914 e il 1917, durante i suoi incontri e le visite agli studi dei pittori che erano entrati in rapporto con lui grazie a Djagilev. E' stato sottolineato più volte quanto il patron fosse convinto che un quadro d'autore o un reperto archeologico sarebbero stati per l'allievo assai più importanti della visione di un qualsiasi pur noto spettacolo (33). E' interessante notare come siano opere proprio di quel triennio e di artisti che sarebbero poi diventati i più importanti del secolo, a testimonianza della volontà di fissare l'importanza che sull'arte coreografica avevano avuto le correnti pittoriche del momento. Vi figurano, oltre ai russi legati a Massine da amicizia e collaborazione, Bakst, Larionov e Gončarova, gli italiani Depero, Balla, Carrà, De Chirico e Severini, poi spagnoli, francesi e messicani, Picasso, Juan Gris, Fernand Leger, Braque, Derain, Diego Rivera e pochi altri (34).
Degli altri due eventi cui abbiamo accennato sopra, uno andrà in porto e sarà la "creazione" finale, cosi recitavano le cronache teatrali sui quotidiani romani, della serata del 12 aprile. Si tratta del famoso Feu d'artifice, azione scenica di luci in movimento su forme plastiche colorate, musiche di Stravinskij (Djagilev aveva ascoltato in Russia nel 1909 l'opera di Stravinskij, composta nel 1908) , scene di Giacomo Balla, regia di Djagilev, Interpreti: nessun ballerino ma ritmi di luci colorate. Lo scenario plastico era stato commissionato a Balla il 2 dicembre del 1916, con tanto di contratto da Djagilev, attirato e cosciente dalla sensazionalità delle nuove ricerche che Balla e Depero avevano esposto nel manifesto Ricostruzione Futurista dell'universo del 1915. Nel Manifesto si affermava la necessità si superare la pittura per approdare alla realizzazione di "complessi plastici non oggettivi che, nell'eterogeneità di materiali diversi, come la celluloide, i vetri colorati, la stagnola, le lamine metalliche e i fili di ferro, lana, seta e cotone dessero "scheletro e forma all'invisibile, all'impalpabile, all'imponderabile, all'impercettibile", agli "stati d'animo dei fuochi artificiali". Una sorta di quella che oggi si chiamerebbe "installazione" ante-litteram, citiamo quanto nel 1968 ne scrive il critico Maurizio Fagiolo dell'Arco: "...un'eccezionale messa in scena del tutto astratta, governata da una programmazione di luci. L'esecuzione durava circa 5 minuti e l'azione si basava esclusivamente sulla variazione della luce sulla scena. Questo balletto senza ballerini ò veramente l'approdo della ricerca futurista di Balla: siamo alla sintesi geometria-musica-luce-movimento, sintesi che dura lo spazio di qualche minuto e si dissolve per sempre con gli applausi" (35). Applausi che, in verità, dalle cronache risultano assai contrastati: nei cinque minuti dell'azione alla prima del 12 aprile accade di tutto. L'impianto elettrogeno del teatro Costanzi non regge il carico dei riflettori, con lampadine "K" particolarmente potenti come è scritto anche sulla locandina, che vengono movimentati sulla scena al ritmo degli accordi enarmonici di Stravinskij. Attimi, che paiono eterni, di buio pesto si alternano a scoppi di luci in rapida ma smorzata successione con ancora interminabili pause di oscurità. Tecnicamente lo scenario di giochi di luce (esiste il documento scritto con i complessivi 70 cambi e variazioni di luce nei 5 minuti, ritrovato in casa Balla nel 1967 (37)) non funzionò, cosi come il suo ideatore lo aveva immaginato, ma certamente lo spettacolo corrisponderà in pieno alla famosa espressione con la quale Djagilev aveva apostrofato qualche anno prima un suo famoso collaboratore : -Etonne moi!- (37). E, in effetti, quell'assemblaggio di strutture di legno tridimensionali, riproducenti coni, spirali, raggi, piramidi e onde, progettate da Balla con perizia ingegneresca , che appaiono rivestite di stoffe e carte trasparenti di un blu e rosso brillanti, illuminate da dietro mentre si accendono e spengono a tempo di musica, sostituendo alla danza i flussi luminosi, come si legge nelle memorie di Massine, stupiscono moltissimo e lo spettacolo diventerà "molto famoso fra gli esponenti dell'avant-garde" (38).
Allo stadio di progetto invece, resta purtroppo l'intenso e straordinario lavoro di Depero per le scene e i costumi di un altro spettacolo che Djagilev gli commissiona il 16 dicembre del 1916, dopo una visita al suo studio in Viale G. Cesare. Djagilev voleva di nuovo stupire il pubblico con Le chant du rossignol , tratto da una fiaba di Andersen, musica di Stravinskij. Questa volta Mjasin avrebbe ballato e firmato le coreografie. E' in questa occasione che potrà acquisire per la sua piccola collezione due disegni e un dipinto dell'artista italiano. La realizzazione dei costumi per la fiaba di Andersen sarà un avvenimento in fieri e determinerà certamente una svolta nell'idea del costume teatrale, che influenzerà anche il successivo lavoro teatrale ispirato al cubismo. Un altro costume- oggetto scenico che Depero aveva provato a costruire per Les Contes Russes nello stesso periodo, sarà fonte di una storica scenata dell'impresario ben descritta da Massine: " Quando entrammo nella stanza, il pittore indicò con orgoglio la costruzione da lui creata, un bitorzoluto elefante di proporzioni gigantesche! (Doveva essere il cavallo fatato sul quale Massine-Principe Bova, si sarebbe allontanato dalla scena n.d.r.) Per qualche tempo restammo in piedi in silenzio, fissandolo sorpresi, fino a che Djaghilev, in un attacco di rabbia stracciò e distrusse con il suo bastone da passeggio l'animale di cartapesta. Tentai di calmare lo stupefatto e scioccato Depero, spiegandogli che la sua "costruzione" era senz'altro molto affascinante ma non corrispondeva al cavallo che avevamo previsto noi. Ma il povero Depero restò assai perplesso e continuò a spiegare che aveva fatto del suo meglio.Aveva immaginato quell'animale esattamente cosi. L'episodio si risolse soltanto quando Larionov inventò un animale primitivo ma aggraziato, in legno sottile e dipinto di bianco" (39).
Per la scena di Le chant du Rossignol Depero realizza il bozzetto di un giardino fantastico, fatto di enormi fiori di plastica e per i costumi, "maschere geometriche simili a maschere cinesi, con le maniche degli abiti a forma cilindrica teste divise a scomparti" si legge nelle memorie di Stravinskij. I russi, Djagilev, Mjasin e Larionov si recano a vedere i costumi nello studio e questi appariono iperbolici, straordinariamente nuovi e impossibili da gestire da un corpo umano. Massine si prova davanti allo specchio quei costumi che lo stesso Depero descriverà cosi in seguito: "mantelli a campana, calzoni e maniche pure campanuliformi; tutto poliedrico in senso asimmetrico, tutto svitabile e mobile. E fu strabiliante sorpresa, da impazzire di giubilo quando il primo ballerino della troupe, L. Massine provò davanti allo specchio i primi due costumi, poiché si videro gli atteggiamenti incantevoli, la mimica stupefacente di uomini plastici di un nuovo mondo" . Il corpo del ballerino in realtà viene imprigionato, sparisce in una sorta di corazza fatta di materiali tessuti, induriti con smalti tesi su fili di ferro; si mette in moto come un motore e ogni movimento diventa come lo scatto di un automa.
Tutto questo non dispiace affatto al giovane Massine, teso a trovare com'è un nuovo linguaggio coreografico adatto ad esprimere le forme della moderna arte. M. stesso dichiarerà nella sua autobiografia l'importanza e l'influenza dei pittori futuristi italiani sul suo lavoro di quegli anni (40). A causa del ritardo con cui Stravinskij conclude la parte musicale, Djagilev deve rinunciare alla messa in scena per Roma e, come si sa, l'opera vedrà la luce solo nel '20 a Parigi con scene e costumi più tradizionali di H. Matisse. Ma il lavoro straordinario di Depero e la rispondenza che ha trovato in Massine non vengono del tutto perdute. Il coreografo usa l'idea portante di quella sorta di corpi automi, per due personaggi di un spettacolo nuovo, nuovissimo, una svolta radicale per la misura consueta che Djagilev imponeva ai suoi spettacoli, bilanciando sapientemente tradizione e innovazione, che proprio in quei mesi. in contemporanea, si sta costruendo a Roma. Le corazze futuriste di Depero verranno molto probabilmente viste e, secondo alcuni, in parte riprese da un protagonista assoluto della pittura della prima metà del secolo: Pablo Picasso che verrà a Roma a Febbraio del 1917 per montare e realizzare scene e costumi di Parade, balletto realistico in un atto con le musiche di Eric Satie e il libretto di Jean Cocteau sempre su commissione del vulcanico impresario dei Ballets Russes, che questa volta ha trovato un finaziatore anzi una finanziatrice d'eccezione , nella leggendaria figura di Gabrielle Chanel, in arte Cocò. Le prove si svolgono alla cantina Taglioni di Piazza Venezia. I mesi, che da febbraio arrivano alla partenza a maggio di russi e francesi per Parigi, saranno intensissimi fra visite ai musei vaticani di Picasso e Prampolini, gite a Napoli, Ercolano, Pompei e Positano di Picasso, Cocteau Djagilev e Massine, discussioni e spesso baruffe, fra il Caffè Aragno e gli studi di Via Margutta, sulla colonna sonora dello spettacolo che, secondo Cocteau, doveva essere integrata con i suoni della febbrile vita contemporanea : sirene, ticchettii di macchine da scrivere, rombi di aerei. Ne sortirà una creatura scenica sulla quale molto è stato scritto e detto soprattutto per essere stato uno dei primi e sicuramente più importanti esempi di arte cubista in teatro. Solo un accenno all'assenza di una vera trama, alla voluta rappresentazione di una scena di vita quotidiana di artisti del circo, tradotta in una forma totalmente nuova: con l'introduzione di figure che devono rappresentare la metropoli contemporanea nelle sue accezioni europea e americana, con ritmi di jazz e ragtime nella partitura musicale, oltre ai già citati rumori "moderni", alle citazioni cinematografiche con i passi della ragazza americana ispirati alla camminata strascicata di Chaplin/ Charlot, ai numeri da Music Hall, come quello del cavallo interpretato da due danzatori che fanno muovere un fantoccio di stoffa, eliminato dopo la prima quando crolla rovinosamente a terra suscitando l'ilarità del pubblico. Ma, al cubismo dei costumi dei Managers e del fondale che ritrae una strada di città con alte case e file di finestre buchi-neri, in mezzo alle quali un teatro storto, dove vivono gli artisti di questo povero circo, sfida l'alienazione dei palazzi di periferia, Picasso contrappone il realismo narrativo di uno scenario popolaresco dove compare una tradizionale scena di vita di teatranti a riposo, durante la siesta. E qui, con l'ammicco ironico e dissacrante del pittore d'avanguardia, ritrae dietro la solarità della luce mediterranea e dell'arte delle stampe popolari dell''800 tutti i partecipanti del gruppo che sta lavorando alla preparazione dello spettacolo. Nella Parade degli artisti del circo, il coreografo, Massine si attribuisce il ruolo del prestigiatore cinese, vestito di rosso e oro. "Avanzavo con incedere rigido sul palcoscenico scuotendo il capo ad ogni passo. Poi, spostandomi verso il centro, facevo un inchino al pubblico e davo inizio al mio numero che avevo concepito come una parodia del comune intrattenitore pseudo-orientale con infiniti trucchi nella manica". Il ballerino mimava un gioco di prestigio che consisteva nell'ingoiare un uovo e farlo ricomparire, "Il tutto durava pochi minuti ma doveva essere eseguito con movimenti definiti in maniera chiarissima e con una grande mimica gestuale" (41) .
Tutti gli "ismi" sono stati nominati per questo spettacolo: dal futurismo, (va ricordato che Picasso nel soggiorno romano assiste alle prove del citato Feu d'artifice di Balla e frequenta Depero che partecipa alla fattura di alcuni dei costumi di Parade), al cubismo, fino al surrealismo, neologismo creato da Apollinaire in occasione della redazione del programma di sala che gli era stato commissionato.
Dunque, mentre si procede nella capitale d'Italia, cosi provinciale come si lamentano gli snobs parigini nelle loro lettere a casa, alla cosiddetta svolta storica dei Ballets Russes con la promozione dell'arte più d'avanguardia,- abbiamo visto Larionov e Gončarova al lavoro per i Contes Russes, Picasso e il gruppo dei parigini con Parade, Balla con Feu d'artifice, il povero e generoso Depero che resterà sempre a livello di progetti o di lavoro dietro le quinte, - ecco che il patron Djagilev e il suo primo ballerino Massine riservarono al pubblico romano un ennesima sorpresa, quasi a voler confermare la loro natura di gente di teatro, rigorosa, ma assolutamente libera di spaziare nelle suggestioni estetiche e culturali più varie. Nella stessa serata del 12 aprile, secondo nell'ordine del programma di sala e precedente quindi il trionfo dell'astrattismo di Feu d'artifice di Stravinskij-Balla, propongono uno spettacolo che vira, almeno in apparenza, di 180°. Un omaggio all'Italia, al suo teatro, e a un secolo, il '700 che per Djagilev ò anche un ritorno alle ricerche degli artisti del Mir Isskustvo che a quel secolo tanto avevano tributato. Si tratta di Le donne di buon umore da Goldoni, ridotto da quattro atti della commedia a un atto, per un balletto che si rivelerà un difficile banco di prova, ma coronato da un notevole successo presso il pubblico romano. Il coreografo "intellettuale" studia su prime edizioni di testi, acquistati da Djagilev ad aste antiquarie parigine, i complicati meccanismi coreutici delle danze settecentesche, cercando a ritroso, come si legge nella sua autobiografia, le ascendenze del metodo accademico studiato alla scuola del Bol'šoj. "Capii l'importanza del dettaglio, il significato anche del più piccolo gesto. Scoprii che il corpo ò fatto da diverse parti strutturali più o meno indipendenti fra di loro che devono essere coordinate grazie all'armonia accademica. Questo mi permise di inventare movimenti spezzati, angolari per la parte superiore del corpo mentre la parte bassa continuava a muoversi nello stile accademico consueto. Questa opposizione di stili era, a mio parere, possibile e poteva creare un contrasto interessante. Usai le notazioni settecentesche come punto di partenza per le mie variazioni. Fu cosi che creai nella mia testa un intera serie di movimenti corporei basati in gran parte sugli effetti ritmici e variando, secondo la natura di ogni movimento, il suo valore ritmico e il tempo per ottenere nella composizione delle frasi coreografiche l'effetto più incisivo (42)". Quell'intera serie di movimenti costituiranno il fulcro della cosiddetta estetica "angolare" che segna la rivoluzione modernista del balletto classico. E' Massine a introdurre nella coreografia, e con Le donne di buon umore si evidenzia la nuova invenzione, "l'angolo acuto, l'angolo più o meno deformato, più o meno comico e caricaturale. Sotto la tutela di Larionov, Gončarova e dei futuristi, Massine irrigidisce la linea morbida e "bella" del balletto. Egli blocca il movimento fluido e contrae l'apertura del movimento classico, sostituendo una gestualità contorta alla tradizionale posizione delle braccia. Tutto ciò che ò plastico, grazioso, libero da angolarità è escluso" scriverà un critico "Il tempo del coreografo tenore Fokin se ne è andato per sempre nella frase breve di Massine. Tutti i movimenti dei ballerini sono brevi, angolari, meccanici (43)".
Per le musiche vennero ascoltate circa 500 sonate per clavicembalo di Scarlatti, dalle quali ne furono scelte una ventina che dovevano accompagnare il veloce ritmo impresso a una commedia di scherzi, intrighi, divertimenti, travestimenti. L'orchestrazione dei pezzi venne affidata al giovane compositore romano Vincenzo Tomassini. Le prove furono lunghe e si trasformarono in un intenso e creativo lavoro intellettuale. Altra fonte d'ispirazione per Massine, fu la commedia dell'arte con i suoi congegni stilistici e i trucchi tecnici, le posture completamente snodate o viceversa rigide dei personaggi privi di profondità psicologica, ma rappresentativi di un carattere, da lui conosciuti certamente ancor prima di lasciare la Russia, e che aveva visto all' opera nei teatrini di burattini frequentati a Viareggio, come risulta dalle sue memorie. Per le scene e costumi fu chiamato Bakst, esperto di stilemi settecenteschi che creò " ricchi costumi ricamati per le donne e giacche di velluto scuro per gli uomini". Per la scena inizialmente disegnò una strana piazza veneziana circolare vista come attraverso una palla di vetro, rifiutata da Djagilev perché troppo sperimentale. Bakst ne rimase dispiaciuto ma la modificò con una scena più convenzionale alla maniera di Francesco Guardi. "Djagilev mi aveva già suggerito di studiare questo pittore e altri del periodo e infatti questi mi aiutarono a visualizzare le stilizzazioni dei comportamenti, degli aspetti lieti e svagati della vita della società settecentesca, l'ambiente raffinato, i gusti delicati, i modi artificiosi e una generale atmosfera di finzione, con personaggi dai costumi eleganti, dagli atteggiamenti pieni di grazia, in scene ricche di movimento e di colore. Ecco che dalle fantasie poetiche, leggere e spettacolari, del Watteau delle Fètes Galantes "trassi i gesti languidi delle donne, i loro delicati movimenti delle mani e l'ineffabile tristezza dei loro sguardi obliqui. Pietro Longhi con il suo acuto senso del particolare domestico fu un aiuto prezioso quando dovetti fare la coreografia per la scena principale, la cena data da Mariuccia per i suoi ammiratori...scena nella quale enfatizzai l'elaborata apparecchiatura della tavola, la disposizione di forchette, coltelli e piatti, i gesti del taglio del pollo e della mescita del vino...La musica di Scarlatti con la sua acutezza e vivacità mi aiutò a inventare schemi coreografici molto complessi, e a raggiungere l'intensità espressiva e la precisione necessarie, allo stesso tempo mantenendo ogni scena nella cornice formale di una commedia di costume veneziana (44)".
Le donne di buon umore sono accolte con entusiasmo dal pubblico romano, che come abbiamo già accennato ancora non si aspettava lo shock della scena futurista, apparsa subito dopo nel buio della sala con Feu d'artifice. Ma questo era, in qualche modo, la magia effimera in apparenza, in realtà densa di ricerche, capacità creative, rischi e tensioni intellettuali dei "famigerati" Ballets Russes, come li chiama il critico Mario Broglio sul Giornale del mattino di Bologna il 3 maggio del 1917.
Il primo maggio, la compagnia era tornata in Francia per preparare la grande rentrée parigina con Parade (45), dopo quella lunga e intensissima stagione romana, nella quale molte anticipazioni delle future novità teatrali e artistiche degli anni '20 erano state seminate da un gruppo di italiani e russi che avevano lavorato insieme.
Massine tornerà in Italia nel febbraio del '21, in rotta totale con Djagilev che lo aveva addirittura licenziato. Lavorerà autonomamente per il Costanzi di Roma, ma risiederà soprattutto al sud, a Positano, davanti a quell'isola dei Galli che avrebbe comprato per 100.000 lire da una famiglia di locali e che sarebbe diventata il suo luogo d'elezione per la vita. Ma questa è un'altra storia.
Cenni bibliografici
Léonid Massine, My life in ballet, edited by Phyllis Hartnoll and Robert Rubens, MacMillan St. Martin's Press 1968.
Vicente Garcia Marquez, Massine, a biography, Alfred A. Knopf, New York 1995.
A. Masoero, M.Fagiolo dell'Arco, M. Sartorio, Giacomo Balla, Futurismo in scena, Museo Teatrale alla Scala, Milano 2001.
L. Garofala, Djagilev Ballets Russes, Oxford University Press 1989.
In principio era il corpo..., l'Arte del Movimento a Mosca negli anni '20,A cura di Nicoletta Misler,
Electa 1999.
I colori della danza, omaggio a Leonide Massine, a cura polo scientifico e museale fondazione Teatro Massimo, Palermo 2002.
E. Gigli, Giochi di luce e forme strane di Giacomo Balla, De Luca Editore d'Arte, Roma 2005.
La danza delle avanguardie: dipinti, scene e costumi da Degas a Picasso, da Matisse a Keith Haring, a cura di G. Belli e E. Guzzo Vaccarino, Skira, Milano 2005.
Arte russa e sovietica nelle raccolte italiane, a cura di G. Di Milia, Nuova Alpha Editoriale, Modena 1993.
Notes:
© V. Benini
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