PIERO CAZZOLA
Immagini storiche e motivi ideali di Roma nella poesia di Osip Mandel'štam
Come nessun altro dei poeti russi della cosiddetta "età d'argento", Osip Mandel'štam (1891-1938) ebbe la percezione che un forte legame esisteva tra la cultura russa e quella italiana. Buon conoscitore della nostra lingua e letteratura, libero traduttore di quattro famosi sonetti del Petrarca (1), autore di un profondo e appassionato Discorso su Dante (2), spesso i suoi versi riflettevano metaforicamente le immagini di città italiane: Venezia, Firenze e soprattutto Roma. Nelle diverse fasi del suo itinerario poetico il contenuto di quelle metafore poté non poco variare, ma rimase immutato "il sottotesto" che le improntava.
Dopo prolungati soggiorni di studio presso le università di Parigi e di Heidelberg nel 1908 e 1910 e un'"affacciata" in Italia nell'agosto 1908 (vide soltanto Genova) (3), l'incontro con la cultura europea lasciò nel giovane Osip una tale nostalgia da indurlo a maggiori approfondimenti. Fu allora che si sviluppò il suo "credo" acmeista, condiviso con Gumilëv, l'Achmatova e Gorodeckij, espressosi in due convincimenti: che esistono soltanto cose particolari cui riferirsi, nella bellezza materiale del mondo e che lo spirito umano è in grado di valersi dei concetti generali per rappresentarle; di qui l'indagine del poeta, deciso ad esplorare il "materiale" fondamentale della poesia e la sua natura (4). Il Simbolismo russo già dal 1912 aveva cessato d'incutere rispetto agli Acmeisti, che pure non ignorando le teorie di Solov'ëv, comune maestro, cercavano di dimenticare il "paradiso noumenico" di Platone e tessevano l'elogio esclusivo del mondo reale, quello dei fenomeni:
"Amo la mia povera terra - perché non ne ho vista un'altra", cosi Mandel'štam ai suoi esordi poetici (5).
Affrontando il "mito di Roma", egli si rifaceva agli sforzi congiunti di molte generazioni, vòlti a liberare l'uomo dal proprio destino e a trasformare le ceneri in una fonte di perpetua rinascita (6).
Roma dunque fu anche per il Nostro la Città Eterna, un punto fisso del mondo, una vittoria sul fato, sul tempo:
Non è Roma che vive tra i secoli
ma il posto dell'uomo nell'universo (7)
Il ciclo delle "poesie romane" della sua prima raccolta Kamen' (Pietra), s'incentra su questo comune asilo degli uomini. Roma rappresenta un paradigma dell'unità: quella pagana è un modello di omogeneità, che comprende tutta la civiltà dello Stato, nata con la violenza e le conquiste, mentre quella cristiana è un esempio di unità, fondata sull'unità spirituale (8).
Tra i primi critici che notarono nella poesia di Mandel'štam, specie degli anni d'anteguerra, immagini e motivi italiani e romani, va citato Gleb Struve, che nel suo articolo in omaggio a Lo Gatto e Maver (9), richiamò l'interesse che aveva dimostrato per l'"italianista" Batjuškov, nonché per la storia romana e per i poeti latini. Nei suoi primi versi (1913-16), osservava Struve, Roma non si presenta come un'immagine concreta, quale poteva apparire a un visitatore, ma astrattamente, quasi un simbolo e non è inserita nell'epoca repubblicana o imperiale, semai pare vivere in un mondo agreste, primitivo.
In Pogovorim o Rime, divnyj grad! (10) del 1914, il poeta è in ascolto del credo dell'apostolo, mentre sull'Aventino si è sempre in attesa di un re; e alle dodici festività canoniche che paiono crudeli ("Oh, il freddo della cattolica tonsura!") si contrappone il Foro, su cui incombe una luna enorme.
Del 1915 è un'altra poesia, scritta in Crimea, Obiženno uchodjat na cholmy (11), in cui sembra di scorgere un mondo precristiano: i greggi di ovini sono paragonati ai "caldei", che avevano fama di maghi, mentre i plebei, offesi, si ritirano sul "nero Aventino", in attesa di un re; però è il latrato di un cane, un falò sotto le stelle, l'acre fumo che si sprigiona da un focolare, che danno l'idea di una Roma "pecoraia".
In altri versi, ancora del 1914, il poeta presenta la capitale dell'impero pagano come una creazione amorale della natura. Si tratta di Priroda - tot že Rim i otrazilas' v nëm (12), in cui - commenta lo Przybylski - se una lupa ha nutrito il fondatore della città, sembra legittimo inferire che i romani appartengano alla razza dei lupi e pertanto Roma è un fenomeno amorale, quanto lo è il mondo animale, essendosi imposta con la violenza. Ma le immagini della sua potenza le possiamo ritrovare
nell'aria tersa, come in un azzurro circo,
nel foro dei campi, nel colonnato dei boschi
perché
la natura è Roma - e non è il caso, sembra,
di disturbare ancora gli dèi -
ci sono le viscere delle vittime, per divinare le
guerre,
schiavi, per tacere, pietre per costruire! (13)
E' di nuovo la metafora del motivo architettonico che Osip, l'acmeista, usa per dare espressione al mondo della poesia, vista come un'armonica costruzione. Ma si riaffacciano anche le idee di Solov'ëv ad ispirare il poeta: il lato materiale della vita si fonde con la sua sostanza spirituale, espressa nell'arte.
Allo stesso concetto si ispira Pust' imena cvetuščich gorodov (14), del 1914:
Che i nomi di fiorenti città
Accarezzino l'orecchio nella loro effimera
importanza,
ma se Roma fu invano dominata dai re e i sacerdoti ne approvavano le guerre, essa rimane il simbolo di quel binomio. Una tale concezione, del resto, era stata già considerata da filosofi e giuristi romani, da Seneca a Cicerone, persuasi dell'universale diritto alla libertà, che il cristianesimo aveva poi recepito e fatto suo.
Nel 1915 compaiono sulla rivista Golos žizni (La voce della vita) tre liriche del Nostro sotto il titolo "Dal ciclo Roma". Nella prima, O vremenach prostych i grubych (15), egli riprende, sulle orme di Puškin, il tema dell'esilio politico, in particolare quello di Ovidio a Tomi, tra gli Sciti, dove lo vede invecchiare componendo i suoi Tristia (sarà lo stesso titolo che Osip darà alla seconda sua raccolta di versi, del 1916). Da un tale spunto nasce l'idea poetica di Roma, connessa a quella della neve che copre la remota contrada sul Ponto Eusino e che se l'esilio è già di per sé una tragedia, lontano dall'Urbe l'uomo è destinato a smarrire la memoria.
Nella seconda lirica Na ploščad', vybežav, svoboden (16), si allude a un architetto russo, Andrej Voronichin, che aveva progettato in stile neoclassico la Cattedrale di Nostra Signora di Kazan', a San Pietroburgo. Vero è che quel monumento dell'architettura, nella sua imponenza, richiamava la Basilica di San Pietro, per cui il geniale costruttore poteva dirsi "non un italiano, ma un russo a Roma" e se poi entravi in quel grandioso tempio era come se, da straniero, percorressi la "selva dei portici" romani.
Un'allusione implicita è anche qui a Pëtr Čaadaev, che durante il regime autocratico dello zar Nicola I, pur vivendo in Russia, era stato conquistato dall'Occidente, dal quale aveva assimilato la cultura europea, facendo di San Pietroburgo una "Roma russa".
Al cattolicesimo tendeva allora il Nostro, che in un articolo su "Apollon", del 1915, dedicato appunto a Čaadaev, sosteneva l'idea di un'unità spirituale della Russia con l'Europa. Quel suo interesse appariva già in Posoch moj, moja svoboda (17), del '14, dove Roma non si presenta come una realtà storica, ma come il simbolo di una città eterna, l'incarnazione dell'idea europea e universale:
"posoch vzjal, razveselilsja- i v dalëkij Rim pošël"; allora "la neve si scioglierà sulle rocce, - arsa dal sole della verità", e il popolo ha fatto bene ad affidarmi il bordone del pellegrino (pòsoch) a me, che ho visto Roma".
Non pare dubbio l'accenno a Čaadàev in cui il poeta si immedesima, mentre i versi Est' obitaemaja duchom (18), pure del 1914, richiamano, nel titolo stesso Encyclyca, la voce implorante di Papa Benedetto XV, da poco salito sul trono di Pietro, che invitò i popoli alla pace in un'Enciclica contro la guerra. Il poeta lo vede cosi, come "la colomba che non teme il tuono", ma "dà gioia al cuore" e non fa che ripetere quel nome
sotto l'eterna cupola dei cieli,
pur se chi mi ha parlato di Roma
è scomparso in una santa tenebra!
* * *
Nel 1915 Mandel'štam era ospite dall'amico Maksimiljan Vološin nella sua casa di Koktebel' in Crimea. Qui, godendo del paesaggio di Feodosija, l'antica Caffa dei Genovesi, fu ispirato a confrontarlo con la Campagna Romana, peraltro da lui mai visitata, ma solo sognata. E cosi nacque S vesëlym ržaniem pasutsja tabuny (19):
Con lieti nitriti pascolano le mandrie
e di romana ruggine è tinta la valle;
il freddo oro della primavera classica
trascina via la tersa rapida corrente del tempo (…)
Qui, Campidoglio e Foro sono lungi,
fra l'appassire della natura serena,
io odo Augusto e al limite del mondo
gli anni rotolanti come sfera di sovrano (…)
Di nuovo è Ovidio ad affacciarsi dai monti della Tauride, il primo degli esuli illustri della storia.
Ancora ai versi dalla Crimea si può ascrivere U morja ropot starčeskoj kifary (20), dove il lamento del poeta latino si fonde col messaggio dal Ponto del Nostro:
Presso il mare il mormorio di un'antica cetra...
Ancora è viva l'iniquità di Roma,
e ululano i cani, e i poveri tartari
nei remoti villaggi della pietrosa Crimea...,
cui segue un'invocazione a Cesare, sordo ai belati dei greggi, e alla luna, che invano versa i suoi raggi, "luna senza Roma, pietosa apparizione";
non quella che di notte guarda il Campidoglio
e rischiara il bosco delle fredde colonne,
ma una luna campagnola, non altro, -
una luna, l'innamorata dei cani affamati.
Nelle Memorie (Vospominanija) (21) che la moglie del poeta, Nadežda Jakovlevna, scrisse col cuore, si fa cenno anche al soggiorno del marito in Crimea e alle confidenze da lui ricevute; che "Feodosfja è il simbolo dell'unità della cultura mediterranea" e che "la Crimea, la Georgia e l'Armenia" non sono, per il poeta, altro che il Mar Nero, in stretto collegamento col Mediterraneo, cioè con la cultura mondiale, ma che "misura di tutti i fenomeni era pur sempre l'Italia" (22). E ancora dell'esilio di Ovidio parlava il poeta a Nadežda, altamente apprezzando i suoi messaggi dal Ponto, dove il lamento si fondeva con la nostalgia per Roma (23).
Anche un altro sincero amico e sodale nel "credo" acmeista, Nikolaj Gumilëv, dando su "Apollon" il suo giudizio sui versi di Kamen', osservava che l'idea della Città Eterna aveva conquistato Osip, e non solo quella dei Cesari, ma pure quella dei Papi, come "simbolo di potenza e di un grandioso spirito creativo", ma aggiungeva che "Roma era soltanto una tappa nell'operosità del poeta" (24).
Questa previsione si avverò, quando l'orizzonte di Mandel'štam si allargò notevolmente sino a comprendere, in una nuova edizione dei Tristia del 1922, il tema italiano, che cosi veniva annunziato:
Ma io canto il vino dei secoli
la fonte dell'italica favella
e nella culla dei progenitori ariani
la slava e germanica indolenza! (25)
Per la prima volta, nella poesia di Osip, compare allora - siamo nel 1916 - il tema fiorentino nella nota lirica V raznogolosice devičeskogo chora (26), che però è da collegarsi con l'intima amicizia ch'egli allora strinse a Koktebel' con Marina Cvetaeva, pur'essa ospite di Vološin.
E poiché la Città del Fiore poteva ben comprendere anche una giovane donna dal nome di fiore (cvet), cosi si spiega l'ispirazione che dettò a Osip quei versi, che vale qui la pena di ricordare:
Nella polifonia di un coro di fanciulle
tutte le soavi chiese cantano ad una voce,
e negli archi di pietra della Cattedrale dell'Assunta
io sogno delle alte, arcuate, sopracciglia. (...)
ma non è strano e stupendo, che noi sognamo un
verziere,
dove tubano i piccioni nel caldo cielo azzurro,
chce una monaca canti gli antichi canti della Chiesa
ortodossa:
Soave Assunta - Firenze a Mosca.
E le cattedrali di Mosca a cinque cupole
con la loro anima russa e italiana
mi rammentino l'apparizione dell'Aurora,
ma con un nome russo e ravvolta in pelliccia.
E', s'intende, il Rinascimento italiano che qui ha vagheggiato il poeta, cui non era ignoto che un grande architetto bolognese, Aristotele Fioravanti, aveva per primo introdotto, a fine '400, nella Mosca di Ivan III, lo stile frjazin, com'era chiamato quel nobile slancio tutto italiano che da allora improntò l'austerià medievale delle chiese russe (27).
Ma anche Marina faceva parte dell'emozione poetica di Osip, in visita con lui al Cremlino di Mosca e un coro di monache, che si elevasse da una cantoria fiorentina, o tra le nude pareti dell'Uspenskij Sobor, era pur sempre tale da far sognare un odoroso verziere del Sud.
Collegati al tema russo-italiano, però su uno sfondo storico che riflette l'amoroso penchant per Marina, sono i versi, pure del 1916 Na rozval'njach, uložennych solomoj (28). Qui l'avvio acquista vigore in quella discesa "dal Monte dei Passeri alla nota chiesetta" nell'"enorme Mosca", su una rustica slitta ricoperta di paglia. Ma subito si intersecano, in seguito, due destini: quello del bimbo che a Uglič "gioca agli aliossi" e l'altro di un ignoto "me", "portato per le vie senza berretto", mentre "nella cappella sono accesi tre ceri"; anzi non di tre ceri si tratta ma di "tre incontri": uno di questi "lo stesso Iddio ha benedetto", ma "il quarto non ci sarà, e Roma è lontana", però "Roma egli non l'amò mai".
Come spiegare questo passaggio da un momento idilliaco nella capitale russa a un brusco richiamo ad un'antica tragica storia? è evidente che il poeta si voleva riferire allo zarevič Dmitrij, forse vittima di Boris Godunov (ma la tradizione dello "zar Erode" è tutt'altro che unanime) (29), però c'è chi ha anche creduto di ravvisare il tragico destino del figlio di Pietro il grande, Aleksej, o ancora del falso Dmitrij dell'Epoca dei Torbidi (30). Si può dire che piu che un richiamo a vicende dell'antica Russia, qui il poeta sembra presagire il suo stesso amaro destino; in tale caso la "mai amata Roma" vuole simboleggiare il potere tirannico instauratosi in Russia con la dittatura staliniana, di cui anche Osip sarà vittima.
Negli anni '20 e nei primi anni '30 di nuovo compaiono nella poesia del Nostro dei motivi italiani e romani, che riguardano o immagini ispirate dall'arte italiana, o reminiscenze di Dante, o mirabilia della lingua italiana, cui rimane legata la sua nostalgia per l'Occidente. Vengono cosi nominati variamente Michelangelo, Raffaello, Tiziano e il Tintoretto, specialmente negli anni dell'esilio di Voronež, quando furono composti i Voronežskie tetradi, pubblicati solo nel 1980. Invece Dante è ricordato in tre poesie; in una di esse, dal titolo Novellino, del 1932, si menzionano i "corridori di Verona" (Inferno, canto XV, versi 121-124), in una traduzione, poi riveduta (31). Un'altra citazione di Dante esule si trova nei versi Slyšu, slyšu rannij led (32), datati "gennaio 1937", in cui è cantata Firenze e "l'amaro pane altrui" dell'esilio. Anche l'Ariosto e il Tasso sono rievocati nelle vicende della loro vita, specialmente quelle del "prigioniero di Sant'Anna", cantate da Batjuškov (33). Ma l'ultima memoria di Roma la troviamo nella poesia Rim (34), del 1937, in cui il richiamo a bennoti monumenti (Castel Sant'Angelo, le fontane, la statua di Marc'Aurelio) farebbe supporre che il poeta avesse davvero visitato la tanto cantata Città Eterna, il che è invece ormai da escludere.
Vale la pena qui di trascriverne il testo, nella bella traduzione che ne ha fatto Serena Vitale (35):
Dove, scoppiati in spruzzi e gracidii,
pur non dormono i ranocchi delle fontane, e desti
una volta per tutte, rotti in pianto
a piena gola e a piene orecchie, aspergono
di acque anfibie la città, disposta sempre a far eco ai
forti...
Lieve, estiva, sfrontata antichità
Dall'occhio avido, dal piede piatto -
Come il ponte inviolato dell'Angelo, appiattito
Piede sull'acqua gialla...
La città estiva, assurda, cinerina
Nella deforme escrescenza delle case,
la città che la rondine della cupola ha scolpito
in una materia di vicoli e correnti d'aria -
l'avete trasformata in un vivaio di massacri
voi, mercenari dal sangue bruno,
camicienere italiche,
crudeli cuccioli di cesari morti (...)
Sin qui la Vitale, che forse non era in possesso (siamo nel 1972) dell'intero testo della poesia, dove si parla degli "scavi del Foro di nuovo in corso", delle "porte spalancate per Erode" e del "degenerato dittatore" che incombe su Roma "col suo pesante mento sporgente". Ma pure di Michelangelo, di cui tutti siamo "orfani", del David (che però è a Firenze) e del Mosé possente si tratta in questa lirica e della condanna di ogni tirannia, nell'allegoria di "un lento Roma-uomo", i cui passi si perdono "nella piazza dei fiumi scorrenti a scalinate" (la Fontana di Trevi).
E' risaputo, come riferi un compagno del lager presso Vladivostok (36), che quando Osip era di buon umore, amava rallegrare quegli infelici leggendo loro i sonetti del Petrarca, prima in italiano e poi nelle traduzioni di Deržavin, Bal'mont, Brjusov e sue stesse. Nel suo calvario, furono quei versi di "Messer Francesco" che lo confortarono.
Notes:
© P. Cazzola
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